La possibilità che la scuola italiana diventi terreno di dialogo tra le parti politiche nella prossima legislatura e non terreno di scontro dipende da due fattori: la riduzione del tasso di valenza ideologica delle proposte di funzionamento del sistema di istruzione e la lettura della storia dell’educazione del nostro Paese, almeno degli ultimi venti anni, al fine di cogliere le migliori esperienze e le risposte più pertinenti alle domande di formazione dei giovani.
Se si leggono i programmi dei maggiori raggruppamenti politici sul capitolo scuola, programmi che sicuramente si ridurranno a slogan urlati nell’imminente campagna elettorale, non pare che siamo a questo punto. Purtroppo. Se è scontato il mugugno di Salvini contro gli insegnanti italiani che sarebbero dei privilegiati perché è da privilegiati fare tre mesi di vacanze consecutivi (si tratta di una vecchia polemica contro una corporazione ritenuta di sinistra e quindi incubatrice di assistenzialismo); se è scontata la difesa d’ufficio della riforma Gelmini da parte di Forza Italia, a sostegno di uno snodo certamente significativo del percorso di ristrutturazione della cultura scolastica del nostro Paese, che tuttavia poteva e doveva essere ripensato, perché recepito come impoverimento delle pratiche didattiche, al di là di alcuni aspetti positivi in esso presenti, se tutto questo è ciò che il panorama presenta sul versante di un’area che ha avuto in passato importanti responsabilità di governo, sul lato opposto il clima è particolarmente acceso.
Sul versante del rapporto tra la principale forza di opposizione, il Movimento 5 Stelle, e l’attuale maggioranza governativa, infatti, l’impressione è che ci si prepari ad una guerra totale che non lascia molto spazio ad aggiustamenti, quanto piuttosto al logoramento dell’avversario. Recentemente, cioè lo scorso maggio 2017, mediante la consueta consultazione online, il Movimento 5 Stelle ha sottoposto ai propri iscritti una serie di quesiti, raccogliendo la prevalenza dei consensi (128mila preferenze espresse su un totale di 19mila iscritti certificati ad esprimere il voto) attorno ai seguenti punti: 1) finanziamenti alle scuole paritarie: la maggioranza è per l’abolizione; 2) modifica della legge 62/2000 che ha istituito la parità scolastica: la maggioranza è per la revisione; 3) offerta formativa: i maggiori consensi alla diminuzione del numero di alunni per classe; 4) smantellamento della Buona Scuola: ovvia maggioranza delle adesioni; 5) didattica: le adesioni più numerose si concentrano sulla diffusione dell’utilizzo di strumenti tecnologici e di libri digitali. Dalla consultazione è derivato il programma scuola del movimento pentastellato, così riassumibile: priorità alla scuola statale, smontaggio della Buona Scuola, messa in discussione della parità scolastica tra scuole statali e non statali. Da queste priorità passerebbe l’innalzamento della qualità della scuola.
A proposito di Buona Scuola, più o meno nello stesso periodo della consultazione online dei 5 Stelle, il Consiglio dei ministri comunicava di avere reso attuativi otto decreti inerenti la legge 107/2015 concernenti materie che vanno dalle modalità di accesso alla scuola per chi vuole insegnare, al sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino a sei anni; dalla promozione e diffusione della cultura umanistica al nuovo esame di Stato.
Ora, lo scenario che abbiamo brevemente richiamato si carica del seguente interrogativo: se è legittimo che i programmi di maggioranza e opposizione siano diversi, è possibile nell’attuale frangente storico che mentre la prima lavora per attuare un certo disegno, la seconda si attrezzi per eroderne le fondamenta? La Buona Scuola ha dei limiti evidenti che le sono riconosciuti anche da molti sostenitori della prima ora, ma non si è posta come demolizione degli assetti precedenti. Anzi, per certi aspetti ne sembra la prosecuzione (vedi la formazione in servizio degli insegnanti, la digitalizzazione, l’autonomia scolastica, ecc.).
Certamente, dirà qualcuno, ma verso il baratro. Eppure così non è, e certi fatti lo dimostrano. Le realtà scolastiche che si sono servite degli spazi aperti dalle norme che si sono succedute non solo sono sopravvissute, ma cresciute e il livello delle pratiche si è innalzato. Per esempio, è cresciuta l’offerta di formazione in servizio rivolta agli insegnanti qualora lasciati liberi di scegliere tra opzioni diverse. Perfino la vituperata chiamata diretta in alcuni casi è servita a favorire l’integrazione del piano didattico del singolo istituto con l’immissione di docenti più selezionati. Non sono mancate vistose carenze sul piano delle nuove assunzioni.
Tutto ciò si deve riconoscere, eppure pare il caso di richiamare che da una decina d’anni vige, a livello di direzione della politica scolastica, un principio implicito che suona così: piuttosto che distruggere, vale la pena costruire e semmai ristrutturare. Le proposte 5 Stelle vanno in una direzione opposta e perciò sono pregiudizialmente ideologiche. Per esempio sul sistema integrato pubblico/privato (già la denominazione è errata) l’obiettivo, si legge nel programma, è di “arrivare a una chiara e netta distinzione tra scuole statali e scuole private e combattere il fenomeno dei diplomifici”. Tutto nello stesso calderone: le scuole migliori e i diplomifici. Ridiscutere la parità scolastica con il fine di abolirla e di drenare soldi allo Stato, a parte le conseguenze devastanti per le casse dello Stato che si vorrebbe favorire, sarebbe una lesione a quel consenso comune che lentamente ma concretamente si è realizzato attorno a imprese scolastiche non di diretta emanazione statale che si sono integrate nel sistema con una fisionomia originale e che non ricevono finanziamenti al di fuori delle regole, ma il poco che loro spetta nel rispetto di direttive ben definite. Non capirlo sarebbe un errore, perseguire questo fine sarebbe un ritorno all’epoca delle rigide contrapposizioni.