Pur occupandomi di scuola da epoche remote, diciamo dal Giurassico, non sono ancora riuscita ad abituarmi a non considerare surreale il modo in cui alcuni problemi vengono trattati. Quest’anno le Manifestazioni di Ottobre, ormai stabilmente inserite nel piano dell’offerta formativa triennale, si sono centrate sull’alternanza scuola-lavoro, raccogliendo intorno al mantra delle imprese sfruttatrici e degli studenti incatenati alla fotocopiatrice (versione moderna del lavoro in miniera) affermazioni del tipo “le nostre università, con i tirocini sfruttamento, sono ormai palestre di lavoro gratuito o precario”, dice Andrea Torti della Link, organizzazione che attraverso l’Unione degli studenti ha organizzato un corteo che si è concluso sotto le finestre della ministra con alcuni ragazzi in tuta blu e incatenati (il pensiero dei lettori di mezza, anzi tre quarti di età, corre a Ben Hur, incatenato ai remi delle galere).
Come reagire a questo tentativo di opprimere la meglio gioventù annegandola in un mare di patatine fritte? Ma diamine! C’è il bottone rosso: agli studenti coinvolti in episodi di sfruttamento, violenze, abusi di ogni tipo (penalmente perseguibili, ma di cui non ho trovato traccia in rete, probabilmente per mia inettitudine) “basterà premerlo su una piattaforma digitale per denunciare il malfunzionamento di un sistema che la ministra Valeria Fedeli è tornata a definire “innovativo” nel corso dei recenti Stati generali dell’alternanza scuola-lavoro. E anche qui, santo cielo! Convocare gli Stati generali porta sfiga, chiedere a Luigi XVI.
Scusatemi, mi sono lasciata prendere la mano. Gli studenti in alternanza sono stati stimati, lo scorso anno, in circa un milione, e nell’anno in corso dovrebbero essere la totalità degli iscritti al triennio delle scuole superiori, circa un milione e mezzo. I pur appassionati e probabilmente sinceri studenti della Rete degli studenti medi, Uds, Fronte della Gioventù Comunista, schierati contro il “lavoro gratuito” di chi può anche essere usato per sostituire i lavoratori retribuiti, anche ammettendo che siano tutti del triennio, sono una piccola percentuale, vogliamo dire uno su mille? E quanti di loro hanno chiari i limiti reali dello sperabilmente perfettibile progetto dell’alternanza scuola-lavoro? Il limite principale, a mio avviso, è proprio questo: l’alternanza è una modalità di apprendimento che va strutturata come un progetto, e deve seguirne le fasi (progettazione, realizzazione, monitoraggio, (ri)progettazione) cosa che poche scuole fanno, e che, dove è stata fatta, ha avuto esiti positivi.
Io ritengo che l’alternanza scuola-lavoro, intesa come una delle possibili forme di raccordo fra istruzione e mercato del lavoro (le altre sono gli stage, i tirocini, l’apprendistato, che richiedono molto più tempo ed hanno, loro sì, una finalità professionalizzante), e non come strumento del mercato del lavoro (lo ha detto perfino Susanna Camusso) abbia almeno due aspetti di innovativa utilità: riconosce il valore del lavoro nella produzione di conoscenza, e può essere inserita nel percorso di orientamento. Qualche giorno fa sentivo alla radio che metà dei diplomati dichiara che non rifarebbe la stessa scelta: non è una novità, i motivi di insoddisfazione sono sempre stati molti, ma certamente la possibilità di giocarsi in un’esperienza diversa potrebbe aiutare i ragazzi a capire meglio le loro attitudini e aspirazioni. La cottura della patatina o la piegatura dei maglioni (fatti salvi, se ce ne sono, i casi di vero e proprio sfruttamento) possono chiarire ai ragazzi quali sono le difficoltà di collaborare con altri, di eseguire un compito in tempi e con modalità precise, e magari senza essere difesi dai genitori. Un piccolo passo verso l’autonomia? L’alternanza non ha come scopo la professionalizzazione: per questo ci sono molte altre strade, e gli imprenditori, anche delle piccole e medie imprese, che il più delle volte non solo non ci guadagnano ma ci perdono, almeno in termini di tempo, lo hanno ben chiaro, e dichiarano di farlo in nome di una solidarietà sociale. Ho idea che se si continuerà a supportare inadeguatamente il loro apporto, e in più a considerarli come tanti Simon Legree (lo schiavista della Capanna dello zio Tom, romanzo anti-schiavista scritto dall’americana Harriet Beecher Stowe nel 1852, precisazione ad uso degli studenti incatenati), la loro disponibilità potrebbe diminuire.
E tuttavia la situazione presenta al momento più problemi che soluzioni. Aspetto con curiosità mista a sfiducia i risultati del monitoraggio in atto presso il ministero. Aspetto l’entrata in servizio dei mille tutor territoriali, forse guidati da Garibaldi: chi sono? Dove lavoreranno? Con quali compiti? Chi li ha formati? Non è che sono rimasti a piedi a seguito della ristrutturazione di qualche istituzione pubblica? Aspetto che esca qualche precisazione su che cosa dovranno fare gli studenti per la maturità, e ho idea che con me aspettino gli studenti e i loro insegnanti. Aspetto che esca un’indagine sulle imprese che non si limiti a individuare le magnifiche sorti e progressive dei casi più riusciti, ma sistematizzi le buone pratiche per coglierne gli elementi di generalizzazione, e individui i limiti a cui porre rimedio. Aspetto che si costruisca un campione rappresentativo per sesso, età, area geografica e indirizzo di secondaria per capire da loro che cosa sta veramente succedendo. Aspetto che lo stesso tipo di indagine venga fatto sui tutor scolastici e aziendali. Possiamo contare, per una risposta sulla mobilitazione degli studenti e sulla costituzione di una task force di oltre 100 docenti e dieci “esperti” a sostegno delle “criticità”…
Per il momento, amici, rallegriamoci. Siamo in tempo di Natale, e attese molto più radicali hanno trovato una risposta, duemila anni fa. Auguri.