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Home » Educazione » SCUOLA/ Quella “vita attiva” dove esame di stato (2017) e realtà si toccano

  • Educazione

SCUOLA/ Quella “vita attiva” dove esame di stato (2017) e realtà si toccano

Il Miur ha lanciato, nell'ambito delle dieci azioni da realizzare con i soldi dei Fondi europei, l'educazione all'imprenditorialità. Non è la solita fuffa, ecco perché. FABRIZIO FOSCHI

Fabrizio Foschi
Pubblicato 23 Marzo 2017
scuola_esame_maturita_2_lapresse_2016

Esame di maturità (LaPresse)

Il Miur ha lanciato, nell’ambito delle dieci azioni da realizzare grazie a 840 milioni di euro stanziati dai Fondi europei, l’educazione all’imprenditorialità. Di che si tratta? L’obiettivo formativo, si legge nella nota del Miur, è fornire agli studenti percorsi di educazione utili a sviluppare “l’autonomia e l’intraprendenza, la capacità di risolvere problemi, di lavorare in squadra, di  sviluppare il pensiero critico”, eccetera. 


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L’iniziativa, appena partita e che sarà interessante seguire nei suoi futuri sviluppi, può essere intesa nel suo richiamo simbolico se si allarga l’orizzonte all’intera questione giovanile attraversata da stimoli di diverso genere. È un dato, infatti, che i giovani in età di diploma di scuola superiore e che si affacciano al mondo del lavoro esprimono bisogni che per fortuna non si raccordano con la cultura della crisi che sembra dominare il mondo adulto. Dovranno essere aiutati, magari, a tradurre in termini realistici la visione virtuale che hanno del mondo, e comunque costituiscono un’interessante prospettiva dalla quale leggere il cambiamento d’epoca cui stiamo assistendo anzitutto sul versante delle reti sociali nelle quali si articola l’esistenza di una comunità civile. Esistenza attraversata dalla cosiddetta “fine del ceto medio” dalla quale il mondo giovanile è condizionato, ma dalla quale nello stesso tempo non ama essere definito. 


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Con questa espressione (fine o crollo del ceto medio) si fa riferimento ad un preciso indirizzo della storia sociale contemporanea che ai nostri giorni secondo alcuni studiosi registra sbocchi imprevisti. Magari della parabola ascendente e discendente del ceto medio si troverà traccia nelle prove scritte di italiano della prossima maturità: qui si può solo accennare ad alcune fasi dell’interessante evoluzione di una eterogenea formazione che negli ultimi due secoli si è posta spesso come protagonista. 

La piccola borghesia (altro termine usato per identificare il soggetto), costituita da impiegati, artigiani, commercianti, coltivatori diretti e professionisti privilegia la stabilità degli assetti governativi ed ha un ruolo molto importante nella conservazione e riproduzione di determinati stili di vita. La propensione alla pace sociale, almeno fino ad un certo punto, e la molteplicità delle funzioni che vanno precisamente dal lavoro impiegatizio alla piccola e media imprenditoria detentrice di strumenti produttivi, favoriscono l’assimilazione di questo gruppo al ceto piuttosto che alla classe. 


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Da questo punto di vista, il ceto medio è sempre stato un elemento difficilmente inquadrabile nelle ricostruzioni storiche di stampo puramente economicistico o dialettico che privilegiano la lotta di classe come chiave interpretativa della storia dell’Otto-Novecento. L’interlocutore ideale del ceto medio è piuttosto lo Stato in quanto fattore di razionalizzazione dei rapporti interni alla comunità civile. Da qui il ruolo di sostegno che questo strato, allora alle prime armi, ha offerto in Italia ai disegni riformistici del periodo liberal-giolittiano e la permeabilità alle proposte politiche socialista e cattolica che consigliavano di optare per il neutralismo in occasione della Grande Guerra, vista invece con favore dalla grande industria e da un certo sindacalismo rivoluzionario. 

Ma il ceto medio, oltre che ai valori della tradizione e della famiglia, è anche facilmente integrabile nelle organizzazioni corporative del fascismo, data la sua attitudine al lavoro secondo principi di organizzazione gerarchica, salvo poi cambiare velocemente cavallo quando l’autoritarismo si trasforma in dittatura massificante. Il rapporto con lo Stato si recupera nel secondo dopoguerra quando, proclamata la Repubblica per la quale si era speso a suo modo, nelle fasi convulse della Resistenza, anche parte del popolo non politicizzato e ideologizzato, il ceto medio diviene il nerbo dei governi di centro e di centro-sinistra. Abituato ad usare la politica per attuare i propri fini di produzione e riproduzione delle condizioni migliori di vita, e non ad essere usato per scopi ideologici dalla politica, il ceto medio è protagonista del boom economico degli anni Sessanta del secolo scorso, allorché perfino una parte del mondo operaio si “imborghesisce”. Una traiettoria, quest’ultima, che si è conclusa alla fine degli anni Settanta con l’inizio della proletarizzazione del ceto medio. 

L’economia globalizzata dell’ultima fase della storia, se non ha distrutto questa componente sociale, ne ha certamente ridotto le ambizioni e assottigliato il portafoglio, a causa dell’ingresso in Occidente di produzioni delocalizzate a bassissimo costo. Il ceto medio una volta fedele allo Stato in virtù delle politiche di welfare system messe in atto per ampliare il consenso, ha cominciato a rivoltarglisi contro nella misura in cui non si è più sentito garantito. 

Il nuovo protagonismo della “società di mezzo”, a giudizio di molti commentatori, si esprime oggi nel sostegno ai programmi populisti di quei leader politici che in vari paesi dello scacchiere occidentale accarezzano le paure e le voglie protezionistiche di chi sente minacciate le sicurezze di una volta. 

In questo marasma come reagiscono i giovani? Come sempre in modo imprevedibile. Se una parte del ceto medio immiserito, quello che non si limita a protestare, impara a convivere con la crisi ampliando le reti di relazioni familiari e comunitarie, da un paio di anni,secondo dati Istat, aumenta in Italia il numero delle nuove imprese giovanili e aumenta la percentuale di giovani dai 18 ai 34 anni che si sentono ceto medio (53% contro il 9% di chi si sente precario). Si sentono cioè in grado di assumersi la responsabilità di costruire nuove basi comunitarie cogliendo le opportunità che la realtà pone nonostante e attraverso la crisi. Ecco perché la scuola fa bene a valorizzare in termini educativi il desiderio di imprenditorialità degli studenti più motivati. Ecco perché la resistenza di piccoli e medi imprenditori che hanno imparato a cambiare stile di lavoro, senza modificare il loro ideale di vita, è una testimonianza impagabile per chi vuole crescere e aiutare in tal modo un intero paese ad uscire dalle secche.


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