Caro direttore,
l’inizio del nuovo anno scolastico per il ministro Fedeli è scoppiettante: si va dallo smartphone in classe per potenziare la didattica ad una particolare attenzione per lo studio della letteratura e della storia del Novecento, da come combattere l’ansia degli studenti alle problematiche dell’alternanza, dalle graduatorie degli insegnanti precari ai nuovi concorsi. Non c’è che dire, un impegno a tutto campo che vede il mondo della scuola fare i conti con qualcosa di nuovo che sta accadendo dentro la società e che riguarda anche la scuola. Il ministro Fedeli lo ha avvertito in un passaggio delle sue dichiarazioni quando ha detto: “Gli insegnanti, in classe, devono coinvolgerli e appassionarli (gli studenti). Un ragazzo può sbagliare, ma deve sapere che non è a scuola per essere giudicato, piuttosto aiutato a superare il suo limite. E deve riscoprire, in questo mondo, la qualità delle relazioni umane”.
Dove sta la questione seria di questo passaggio che è sempre più decisivo? Che si confondono gli strumenti con il vero problema della scuola. L’esempio dello smartphone lo evidenzia in modo lampante. Va benissimo utilizzare lo smartphone dentro la didattica, far cogliere come questo strumento sia utile per far crescere la conoscenza, ma non è lo smartphone a produrre conoscenza, a risolvere i problemi di comunicazione che ogni insegnante incontra ogni mattino, non è affidarsi allo strumento che rende la scuola capace di essere all’altezza delle domande di ogni studente. Qui sta l’errore, pensare che di fronte alla crisi delle certezze che colpisce insegnanti e studenti si possa trovare una nuova strada con strumenti moderni, più al passo con i tempi.
Oggi ancor di più si pone la sfida che don Luigi Giussani nel 1977, quarant’anni fa, poneva a Viterbo agli insegnanti che si erano radunati per cercare di capire che cosa si richiedeva loro in quegli anni così difficili per l’impatto ideologico di cui tutti soffrivano. Don Giussani disse cose che si sono rivelate profetiche. “La partenza vera — disse ad un certo punto — deve rinnovarsi tutti i giorni: è questo il nostro genio, la nostra forza. L’inizio è una presenza che si impone. L’inizio è una provocazione, ma non al ‘cervello’… L’inizio vero è una provocazione alla nostra vita; ciò che non è provocazione alla vita ci fa perdere tempo, energia e ci impedisce la vera gioia”.
Qui, in queste parole sta la questione seria di oggi: il nuovo inizio non è uno strumento più sofisticato, ma è una provocazione alla vita che si pone. Fa bene il ministro a parlare dei nuovi strumenti, a identificare dei nuovi percorsi didattici, a sollecitare un’attenzione al Novecento, ma la questione vera è che dentro la scuola vi sia un soggetto umano capace di guardare singolarmente gli studenti e le studentesse che ha davanti. Perché, come lo stesso ministro ha intuito, ogni ragazzo e ragazza oggi ha bisogno prima di tutto, quando entra in classe ogni mattina, di incontrare qualcuno che lo guardi, qualcuno per cui vale, anche se nella sua materia fa fatica.
Così, nella scuola in cui stanno crollando tutte le evidenze, la nuova evidenza è uno sguardo da cui ci si sente presi sul serio. Senza tale sguardo resta solo la scuola dei processi e delle procedure, la vecchia scuola dell’omologazione che Pasolini aveva già accusato e che continuamente, caparbiamente, sempre ritorna.