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Home » Educazione » SCUOLA/ Cosa vuol dire educare un giovane a “stare al mondo”?

  • Educazione

SCUOLA/ Cosa vuol dire educare un giovane a “stare al mondo”?

Valter Izzo
Pubblicato 22 Luglio 2018
scuola_studenti_giovani_2_lapresse_2018

LaPresse

Spesso gli adulti rinunciano ad opporre ai giovani l'oggettività della realtà. I giovani capiscono e si adeguano, trovando la scorciatoia. Qual è il ruolo dell'adulto? WALTER IZZO

Provo una certa pena per molti genitori e insegnanti. Ogni ragazzo un po’ fuori dalle righe è un problema. Non sanno come prenderlo: il ragazzo lo capisce e ne approfitta, tentando qualche atteggiamento da bullo. Se la passa liscia, ci riprova. I genitori si spaventano e, se poi il ragazzo insiste, ne parlano con lo psicologo; l’insegnante, smarrita, riferisce al consiglio di classe. La diagnosi è banale: il ragazzo non è “normale”, non rientra nella norma, è un problema per la famiglia e per la classe.


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Da adolescente — erano gli anni Sessanta — ho avuto la fortuna di conoscere un vero educatore: il prete dell’oratorio di Lambrate, in periferia di Milano, pieno di ragazzi tutte le domeniche pomeriggio. 

Di fronte ad ogni atto di bullismo interveniva con severità: niente film per il colpevole nel salone parrocchiale o espulsione dal torneo di calcio per uno o più turni, in base alla gravità della mancanza. Spesso il bullo in questione proveniva da una famiglia problematica e il prete lo sapeva: ai ragazzi difficili dedicava più attenzioni che agli altri, ma per certi comportamenti non faceva eccezioni. Eravamo tutti tenuti al rispetto delle regole. Al mondo ci sono le norme e lui ci educava a stare al mondo. Non faceva sconti a nessuno, perché — diceva — il datore di lavoro, un giorno, non avrebbe fatto sconti a chi non fosse stato alle regole dell’azienda.


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Una volta, un mio amico aveva sporcato un muro dell’oratorio verniciato di fresco e sperava di cavarsela chiedendo scusa al prete. Questi lo affrontò accigliato e gli fece una ramanzina sul rispetto delle cose comuni, sul loro valore e sulla differenza fra un muro bello e uno brutto e sporco. 

“Ma sei pentito di ciò che hai fatto?” chiese ad un certo punto.
“Io ho chiesto scusa, ma tu sei prete e mi perdoni. Non è vero?”
Il prete, fermo, citò il vangelo. “Se il tuo fratello ti ha fatto torto, rimproveralo; e se poi si pentirà, perdonalo”. “Vedi — continuò — io ti ho rimproverato e ti ho spiegato perché ti sei comportato male. Ora tocca a te: se vuoi il mio perdono e di tutti i ragazzi ai quali hai sporcato il muro, devi pentirti e comportarti di conseguenza”. Il giorno dopo il mio amico aiutava un volontario dell’oratorio a riverniciare il muro.


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Il brano di Vangelo citato (Luca 17,3) mi pare ancor oggi il miglior argine alla moda di perdonare tutto e tutti in nome di una bontà astratta, ultimamente diseducativa perché non aiuta i giovani a distinguere il bene dal male: una bontà senza carità, comoda, utile solo ad evitare il peso del prendere posizione e la fatica della correzione.

La cultura dominante parla di “genitore-amico”, di “educazione come scambio simmetrico” e di “educare senza punire”. Forse perché sono sempre più rari i maestri di vita?

Il prete della mia parrocchia accompagnava i ragazzi con amore, ma nella distinzione dei ruoli. Negare l’autorevolezza di una guida che indirizzi e corregga significa minare alla radice la figura dell’adulto e negare ai ragazzi, specie a quelli più difficili, un riferimento chiaro e sicuro.

Occorre considerare i ragazzi “normali”, che non significa “uguali”: c’è chi è più dotato e chi meno, chi è di buona famiglia e chi no, chi sembra un ragazzo difficile e forse è solo in difficoltà. Inevitabilmente qualcuno arriverà più lontano o arriverà prima alla stessa meta, ma la strada deve essere la stessa per tutti, badando al passo di ciascuno. Tutti devono essere accompagnati in un cammino: questo è anche il modo migliore per stimolare l’impegno di ciascuno.


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