La comunicazione di Trump buca lo schermo anche grazie al suo linguaggio politico. Tuttavia alla sua abilità “letteraria” manca ancora qualcosa
Frasi come “Sembra scritto ieri” sono diventate clichés così diffusi che ci si dimentica come siano appropriate, a volte. Per esempio: un saggio (Literature and Propaganda) apparso nel lontano 1938, e per di più su una rivista letteraria (Virginia Quarterly Review) e in sovrappiù scritto da un poeta (Mark Van Doren, vincitore di un Premio Pulitzer); che cosa potrebbe a prima vista sembrare meno pertinente ai problemi della politica contemporanea, e in particolare al “caso Trump”? E invece no, non è così. Basti leggere le frasi iniziali, che sono poi le più interessanti di quel saggio:
“Si potrebbe dire che ogni testo letterario è una specie di propaganda […] E si potrebbe anche dire che ogni testo propagandistico è una specie di letteratura […] I librai e i collezionisti di opuscoli chiedono: ‘Che cos’è la letteratura?’, e poi non si fermano ad aspettare la risposta. Comunque, quella è una buona domanda; e anche quest’altra è buona: ‘Che cos’è la propaganda?’. E c’è perfino una terza domanda: ‘Qual è la differenza fra di loro; e questa differenza, è assoluta?’”.
Ecco un modo di rivisitare vecchi problemi che sembra addirittura scritto “domani”, per il suo modo brusco e semplice di tagliare attraverso varie cortine di nebbia erudita.
Soffermiamoci soltanto sulla terza domanda, alla quale ci permettiamo di offrire subito una risposta: No, non c’è una differenza assoluta fra la letteratura e la propaganda. La letteratura propaga idee, sentimenti, visioni, e ha lasciato da un bel po’ la purezza della torre d’avorio; e la propaganda (con la sua illustre anche se angusta genealogia ecclesiastica e latina: De propaganda fide), propaga idee, visioni, sentimenti. Allora, vale la pena di sviluppare seriamente quella provocazione.
Uno degli aspetti più brillanti e meno analizzati della strategia di Trump è il suo modo peculiare di utilizzare il linguaggio politico; che naturalmente rappresenta, come tutti i tipi di discorso politico, il linguaggio della propaganda.
Ma quest’ultima non si riduce (vale la pena di insistere) a una serie di trucchi, anche se poi non disdegna di ricorrere a elementi, per così dire, di maquillage della realtà; come del resto accade in certa misura, per fare solo un paio di esempi, in ogni conversazione in seno alla famiglia o tra innamorati, e senza che nessuno se ne scandalizzi, tutt’altro; anzi, questo è l’ingrediente essenziale, per esempio, della letteratura drammatica.
La figura dominante nel linguaggio della propaganda (e della poesia) è l’iperbole, che consiste, come dicono i vocabolari, nell’“intensificare un’espressione esagerando oltremisura le caratteristiche di qualcuno o qualcosa”. È una mossa che ha la sua base, come tutte le manovre simili, nella lingua di tutti i giorni (“Mi sono divertito un mondo”).

Sembra semplice; ma tutto sta nel come si usa questo strumento. Trump (erroneamente criticato come “volgare” dai professori della prosaicità e dai commandos del giornalismo) adopera lo strumento con grandissima abilità: passando da un linguaggio semplice, tipo “parlo come mangio”, continuando con i vari gerghi tecnici (economici, militari ecc.) a seconda dell’occasione che si presenta – e poi, zac! sventolando improvvisamente un suo tipo di “poesia” selvaggia (e chi pensa che l’aggettivo “selvaggio” stoni con il sostantivo “poesia” non si è molto interessato allo sviluppo moderno della letteratura, dalle avanguardie protonoventesche, specialmente italiane e francesi, fino a quello che accade in poesia oggi).
Non ci dovrebbe esser bisogno di precisare (ma con le legioni odiatrici schierate contro Trump, non si sa mai) che qui non si sostiene che Trump sia un poeta, e nemmeno un uomo di lettere: si vuole semplicemente suggerire che in tutti gli aspetti della sua attività politica – anche nell’apparente deserto grigio dei calcoli tariffari – si annida in lui un’eccezionale abilità di intrattenitore dalla lunga esperienza, e che questo “intrattenimento” è un modo di agire politicamente.
È facile profezia, fra l’altro, che stiamo per assistere a una serie di imitazioni – più o meno riuscite – del linguaggio trumpiano sulla scena politica internazionale (chi più amerebbe emularlo in Europa sarebbe forse il prossimo presidente o presidentessa della Francia; ma non ci riuscirà, perché il francese è una lingua splendidamente “ingessata”).
Tutto bene, allora: trionfo politico-comunicativo di Trump? Non esattamente. Perché è proprio questa sua istintiva abilità letteraria (guadagnata nei mondi – duramente esigenti, pur nella loro diversità – dello spettacolo e del commercio) che sembra avergli impedito finora di fare attenzione a una grave lacuna; non solo della sua personalità – questo avrebbe poca importanza –, ma soprattutto della sua presidenza: l’assenza dell’elemento intellettuale (diciamo meglio: dell’elemento umanistico) nella sua squadra di governo e nei suoi vari consulenti.
Il contributo degli intellettuali, apparentemente astratto, è in realtà molto concreto: senza quelli che gli americani nel loro anti-intellettualismo chiamano ironicamente “le teste d’uovo”, ogni governo rischia di andare in rovina.
Così è stato lungo il corso della storia, così è, così sarà; almeno, fino al trionfo completo dell’intelligenza artificiale. E questo è uno dei punti di vantaggio della politica europea: per esempio l’integrazione, nonostante una certa freddezza di stile, che la Francia ha sempre mantenuto e continua a mantenere fra i suoi intellettuali e i suoi politici; per non parlare della grande tradizione umanistico-religiosa della diplomazia vaticana: tradizioni, queste e altre (è necessario menzionare Machiavelli?), che gli americani farebbero bene a studiare. Altro che Europa “patetica”!
Diciamolo chiaro: mai annuncio fu più “prematuro” che quello della morte dell’umanesimo. Senza la forza motrice dell’intelligenza umanistica, Trump potrà forse vincere (di stretta misura) le elezioni di medio termine, ma scenderà a una decadenza e impoverimento di tono nella seconda parte del suo mandato, con grande pericolo per il lascito suo (a cui Trump ovviamente tiene con tutta la forza del suo ego) e per il futuro di tutto il partito repubblicano.
Mentre invece ci sarebbe anche la possibilità di un dialogo umanistico e umanitario con il partito avversario, soprattutto se i “dems” mettessero da un lato il loro problematico tentativo di combinare nichilismo e progressismo.
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