“Pride Comes Before a Fall”, suona uno di quei tanti motti che si ripetono solennemente quando non importa, e si dimenticano quando verrebbero utili. Tradotto liberamente: “Calma, ragazzi, calma, non riscaldatevi troppo”.
Quando, tra poche ore, le truppe dei politici troppo sicuri di sé (ogni politico in ogni Paese lo è, ma gli americani lo sono il doppio degli altri) inonderanno Washington, dovrebbero ripetersi sottovoce come un mantra: ”pride-comes-before-a-fall, pride-comes-before-a-fall…”. E qui non ci si riferisce a Donald Trump, uno dei pochi presidenti intelligenti nella recente storia americana (esiste un’esigua minoranza di osservatori che aveva parlato di Trump in termini seri – altro che “teoria del pazzo”! – fin dal 2016, quando Trump era trattato appunto come tale, o come “idiota”, dalla maggior parte dei giornalisti in USA e dai velinari della Casa Bianca e della NATO in Europa). E invece, negli ultimi decenni, i suoi unici predecessori nella qualità della mente sono stati Bill Clinton e Jimmy Carter (quest’ultimo poi, rispetto agli altri due, aveva qualcosa di più: l’intelligenza del cuore, oltre quella del cervello).
Ma nemmeno Trump è onnipotente (anche se a volte sembra tentato di pensarlo), e non basta un leader intelligente a salvare un impero in decadenza, che ancora si culla in quella che è stata fin dall’inizio una prepotente idea totalitaria: il cosiddetto “eccezionalismo” americano. Che poi è uno dei poveri surrogati di quella filosofia della storia e della politica che gli USA, con tutta la loro supponenza verso l’Europa, non hanno mai veramente saputo sviluppare: e quando hanno voluto qualche scampolo di questa filosofia, hanno dovuto ricorrere a nientemeno che un francese, cioè un rappresentante di quel popolo che gli americani love to hate, e che per giunta era un nobiluomo (parlo, ovviamente, di Alexis de Tocqueville).
Adesso però questo “eccezionalismo” ha definitivamente gettato la maschera, e si è rivelato in tutta la sua miseria: il metaforico scettro che verrà brandito a Washington, città derivativa (l’architettura, urbanistica e scultura sono franco-italiane, il cerimoniale solenne trasuda nostalgia per l’eleganza della monarchia britannica), sarà uno scettro sfrondato dei suoi allori (per dirla con Ugo Foscolo, che dei disastri delle guerre imperialistiche se ne intendeva). Questo “eccezionalismo” non è altro che il peccato originale della storia americana.
Gli americani, ribellandosi al loro statuto di coloni britannici, cominciano fin da subito a sviluppare il loro progetto coloniale. Fra le parole bronzee della Dichiarazione d’Indipendenza ci sono anche quelle sul Re inglese che ha “scatenato gli abitanti delle nostre frontiere, gli spietati Indiani Selvaggi [iniziali maiuscole nel testo] le cui ben note regole di guerra sono l’indiscriminata distruzione di persone di ogni età, sesso e condizione”. Non è esagerato dire che questa frase, che sintetizza in una caricatura demagogica il complicato periodo delle Guerre Indiane iniziate nel XVII secolo, contiene in germe la legittimazione, dal più alto pulpito, del progetto genocida di cui furono vittime quelli che adesso si chiamano (meglio tardi che mai) “Americani Nativi”.
Ma sorvoliamo su tutta la storia americana dei massacri “eccezionalistici”, e saltiamo a questi nostri giorni. Il progetto americano è intrinsecamente imperialistico, e non pare destinato a cambiare in quello che è probabilmente l’ultimo ventennio di vita dell’impero come tale (il famoso slogan sul “Rifate grande l’America!”, Make America Great Again, è la chiara ammissione di un’impossibilità che necessita di una consolazione retorica). Ma quello che già appare come il notevole contributo di Trump è l’inizio della trasformazione dell’imperialismo espansionistico (in stile Partito democratico) in un imperialismo più cauto, meno guerrafondaio, più ripiegato su se stesso; e le “sparate” sulla Groenlandia e sul Canada rientrano già, a ben vedere, in questo senso di ripiegamento. Sarebbe consigliabile che la cerimonia inaugurale si svolgesse in un’atmosfera, non di umiltà – sarebbe chiedere troppo –, ma di modestia; però naturalmente non bisogna farsi illusioni, anche se molte palme si poseranno su Bibbie molto grosse.
Un prete bolognese se n’è uscito improvvisamente l’altro giorno con un’osservazione dall’apparenza un po’ enigmatica: “Vedi, qui intorno c’è molta violenza, e allora nasce il bisogno del perdono”. A me non sembra che si riferisse primariamente alla necessità di perdonare anche i violenti. Ho sentito invece in quella frase qualcosa che andava oltre l’ovvietà: ho sentito l’intuizione che il violento, nel momento stesso in cui compie violenza, chiede sotterraneamente (e in modo per così dire labirintico) perdono. E anche questo ci sta, dentro il grande spazio americano.
P.S. Chi ha scritto questi paragrafi è un cittadino euro-americano e come tale non esposto, si spera, alla scomunica laica dell’“anti-americanismo” .
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