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Home » Cronaca » EITAN MOR E GLI OSTAGGI LIBERATI/ Smettere di essere simboli per diventare liberi, il compito di ognuno

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EITAN MOR E GLI OSTAGGI LIBERATI/ Smettere di essere simboli per diventare liberi, il compito di ognuno

Federico Pichetto
Pubblicato 14 Ottobre 2025
Il ricongiungimento di un ostaggio liberato, Eitan Mor, con i suoi cari (Ansa)

Il ricongiungimento di un ostaggio liberato, Eitan Mor, con i suoi cari (Ansa)

Ieri sono stati liberati gli ostaggi vivi israeliani. Tra essi Eitan Mor, ostaggio invisibile. La sua famiglia lo aveva considerato sacrificabile

Il rilascio degli ostaggi israeliani, rapiti il 7 ottobre 2023 da Hamas, segna la fine simbolica di un conflitto durato due anni e suggellato da una pace fragile, ma fortemente sostenuta dagli Stati Uniti d’America con il concorso di molti Paesi arabi. La politica farà certamente il suo corso e le analisi della situazione conforteranno a volte i sostenitori di una soluzione veloce e definitiva delle ostilità, a volte coloro che – al contrario – sostengono che non c’è niente che possa essere definitivo se prima non è giusto, soprattutto per il martoriato popolo palestinese.


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Tuttavia, c’è un punto che spesso è tenuto fuori dal discorso pubblico ed è l’alto valore simbolico che questi ostaggi hanno assunto in questo lungo periodo di crisi. Essi hanno di fatto smesso di essere persone come le altre e le loro vite sono state caricate di un significato diverso, fino a diventare – in non pochi casi – una semplice merce di scambio.


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Il caso di Eitan Mor, 23 anni, colpisce. La sua famiglia ha costituito un raggruppamento di parenti degli ostaggi che propugnava come soluzione al dramma del 7 Ottobre non il cessate il fuoco a Gaza, come auspicato dalla maggioranza delle altre famiglie, ma il prosieguo della campagna militare.

La vita di Eitan, insomma, era strettamente correlata alla vittoria di Israele e a nulla sarebbe servito il suo rilascio se lo Stato israeliano non avesse prevalso nel conflitto. Eitan non è stato dunque soltanto un simbolo, ma è diventato per la sua stessa casa un olocausto utile per la vittoria.

Eitan oggi è tornato a casa e non è dato sapere che cosa pensi di tutto ciò. Eppure, qualcosa si può comprendere se l’attenzione dell’osservatore si sposta su tutte quelle volte in cui i figli, in un matrimonio, diventano un simbolo da contendersi fra genitori, o gli studenti – in una scuola – diventano simbolo del consenso e del successo di questo o quel docente.


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L’attenzione dell’osservatore può pure spostarsi su tutte quelle dinamiche che portano la fidanzata a diventare simbolo del riscatto di un’intera vita o il fidanzato simbolo dell’emancipazione dalla famiglia. E poi si prosegue: il capo sul lavoro diventa simbolo dell’ingiustizia, il governo del Paese simbolo a priori della corruzione e della nefandezza.

Un’immagine rilasciata dall’ufficio stampa del primo ministro israeliano sul rilascio dei 20 ostaggi liberati da Hamas e tornati dopo due anni dalle loro famiglie, 13 ottobre 2025. ANSA/US PRIMO MINISTRO ISRAELE

In tutti questi casi liberarsi dal simbolismo significa ripercorrere tutta la strada che separa la persona dall’immagine che quella persona ha assunto in seno ad un contesto o a una comunità. Smettere di essere simboli, per Eitan e per tutti gli altri ostaggi, non sarà facile. Come non sarà facile accettare di essere stati considerati vittime necessarie alla causa.

Occorrerà riappropriarsi della propria umanità, del proprio desiderio di vita. Perché il simbolo vive del desiderio degli altri, mentre l’uomo è guardato solo per il desiderio che è e che ha. Ritornare umani non significa farsi una doccia o ritrovare casa, così come per un malato di tumore che guarisce non significa semplicemente riprendere la vita di sempre.

Un pericolo è davvero scampato quando il desiderio che costituisce la vita alla radice è ritrovato. Eitan, ma anche i figli contesi o gli amori idealizzati, come i capi vilipesi o gli alunni esibiti come trofei, ritroverà il proprio respiro solo ritrovando quel bisogno di bene, di giustizia, di verità e di bello che lo rende soggetto, che è più grande di ogni legame di sangue o di ogni “voce” esterna.

“Come è strano, difficile, faticoso – diceva don Luigi Giussani – riprendere coscienza di noi stessi, della vita, del vero, riaccorgerci di verità per cui la vita sussiste, si muove. Ma – e qui il sacerdote di Desio mostrava tutto il suo genio – occorre volerla questa fatica, perché possiamo riprendere contatto con verità che sono luce per la vita. Occorre che questa luce rischiari le nostre giornate e contenda l’ottusità con cui ci alziamo al mattino, facciamo colazione, andiamo a scuola, una ottusità sub-umana che inaridisce il gusto del vivere, il significato di ciò che facciamo, e che solo la luce della verità può farci superare”.

È questa la strana strada che aspetta Eitan e gli altri ostaggi, una strada la cui meta è diventare originali, ossia capace di originare negli altri lo stesso desiderio che ha rimesso in moto loro. Perché un uomo è davvero libero quando ricomincia a desiderare davvero e il desiderio vero non è un’emozione o un sentimento, ma qualcosa che origina attorno a sé la stessa domanda di significato e di bene.

Eitan può diventare davvero originale. Non perché la sua famiglia era disponibile a sacrificarlo alla causa, non perché è stato imprigionato e liberato da Hamas, non perché ha una storia particolare, ma perché tutto il cammino fatto lo può rendere speranza per la sua gente, segno e non più simbolo. Il segno rimanda, il simbolo trattiene.

La violenza della prigionia, come quella che spesso alberga nelle nostre case, nelle nostre scuole o nei nostri uffici, non va trattenuta per diventare rabbia, rivendicazione e vendetta. Ma va riscossa nella sua domanda più vera. Quella che ogni uomo si porta dentro e che, in fondo, si sintetizza in una piccola e antica parola: libertà.

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