EMBARGO AL PETROLIO RUSSO/ “Le sanzioni Ue aiutano Putin e impoveriscono l’Europa”

- Paolo Annoni

Dopo l'embargo all'import di petrolio russo, il prezzo del greggio europeo è salito e Mosca sa già come non perdere i guadagni garantiti dalle sue materie prime

Borrell, Ucraina Josep Borrell, Alto Rappresentante per la Politica Estera Ue in Ucraina (LaPresse, 2022)

Dopo l’embargo parziale delle importazioni di petrolio russo da parte dell’Ue, il prezzo del greggio europeo, il Brent, guadagna quasi due dollari al barile mentre il prezzo di riferimento americano, WTI, circa 50 centesimi; il rublo si è rafforzato sia sull’euro che sul dollaro. Secondo il responsabile della politica estera dell’Ue Josep Borrell, il blocco avrebbe lo scopo di costringere la Russia a vendere il suo petrolio a un prezzo più basso.

Mentre l’Ue annunciava il blocco, il vicepresidente della società russa Lukoil proponeva di tagliare la produzione russa da 10 milioni di barili al giorno a 7-8 per ottenere un prezzo migliore ed evitare di venderlo a un prezzo troppo basso. Invece di vendere 10 milioni di barili, supponiamo, a 50 dollari al barile, la Russia potrebbe venderne 7/8 milioni a 80 dollari al barile. Così il petrolio russo si vende con uno sconto di circa 30 dollari al barile sul Brent. Togliere 2 o 3 milioni di barili al giorno dal mercato farebbe immediatamente alzare il prezzo e la Russia, mantenendo lo sconto invariato, compenserebbe immediatamente i volumi. Fate il blocco della produzione? Noi alziamo i prezzi di tutto il sistema e finiamo in pari vendendo al resto del mondo. Abbassiamo l’offerta rendendo a tutti più difficile l’approvvigionamento e aumentiamo il nostro potere negoziale. Voi cosa fate? L’Europa che alternative ha?

Non siamo in una situazione di offerta illimitata, né siamo in un mercato del compratore, perché è da otto anni che non si investe abbastanza in idrocarburi. Oltretutto le raffinerie non funzionano indistintamente con tutti i tipi di petrolio, ma sono tarate per processare solo una certa miscela. È la ragione per cui nonostante i rapporti pessimi, gli Stati Uniti stanno approcciando il Venezuela per aumentare le importazioni di petrolio con cui si alimentano le raffinerie del Golfo. Le economie che vogliono far funzionare la propria logistica, che vogliono evitare i blackout e che hanno bisogno dei derivati sugli idrocarburi, plastica e fertilizzanti su tutti, hanno bisogno di continuare a comprare petrolio e gas in un mondo in cui l’offerta è strutturalmente scarsa. Le politiche ambientali assicurano che questo non cambi e aumentano la propensione dei partner russi a pagare i prezzi di oggi e poi quelli di domani.

L’Unione Europea sembra vivere della convinzione che ci sia sempre qualcuno disposto a vendere il gas e il petrolio, ma la realtà non va affatto in questa direzione. Ad aggravare lo scenario c’è la crisi alimentare che minaccia di colpire proprio quei Paesi, sulla sponda africana del Mediterraneo, a cui l’Europa si rivolge per garantirsi le risorse che non ha. 

L’Europa, un’economia trasformatrice che ha prosperato in un mondo aperto, si troverebbe a competere strutturalmente con Paesi dal basso costo del lavoro e in più con un vantaggio consistente e strutturale sull’energia: Cina, India, Turchia, Sudest asiatico. Quella del Consiglio Ue è la ricetta per la distruzione del sistema industriale europeo; a meno di fare dell’Europa un lager senza rapporti esterni. 

Ieri diversi organi di informazione hanno rilanciato un rumour secondo cui Biden starebbe considerando di limitare le esportazioni di petrolio. Il presidente è spaventato dalle conseguenze politiche, a meno di sei mesi dalle elezioni di mid-term, che il rincaro senza precedenti dei prezzi alla pompa sta producendo in America. La mossa rivela quali siano le tensioni politiche a cui viene sottoposto il sistema e l’unità del cosiddetto Occidente. Non è chiaro cosa potrebbe succedere in Europa se questa estate le scorte di gas fossero ai minimi e i sistemi politici nazionali fossero messi davanti al rischio di dover spegnere le imprese o lasciare i cittadini al freddo. Le spinte disgregatrici potrebbero solo aumentare e molti Stati membri avrebbero la tentazione di proseguire su una politica estera autonoma e più agile.

Tutto quello che è successo nelle ultime settimane dimostra che le sanzioni europee non solo non hanno indebolito la Russia, che ha risorse naturali sterminate e insostituibili, e hanno al contrario danneggiato l’Europa, ma che hanno anche spostato il potere negoziale verso la Russia. Le sanzioni iniettano volatilità, fanno salire i prezzi perché portano alla convinzione, inevitabile, che l’offerta sia più problematica. In questo scenario i produttori hanno più potere e i compratori meno.

Non si capisce, tra l’altro, con quali risorse l’Europa possa riarmarsi in questo contesto. 

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