Cento anni fa il mondo scientifico ha assistito, senza rendersene pienamente conto, alla repentina affermazione del genio di Albert Einstein: nel giro di qualche mese, una sequenza di cinque articoli apparsi negli Annalen der Physik ha impresso alla fisica una svolta irreversibile. E non si è trattato solo della teoria della relatività (come si potrà leggere in questo numero) ma delle conoscenze basilari per comprendere la luce, la materia e le loro interazioni.
Il 1905 è stato giustamente considerato un annus mirabilis, così come lo era stato quello tra il 1665 e il 1666, che aveva registrato una analoga performance del ventitreenne Isaac Newton, alle prese con i nuovi strumenti matematici necessari per sviluppare la meccanica e con le prime intuizioni della teoria della gravitazione universale.
E di questo 2005, proclamato anno mondiale della fisica, cosa si dirà tra cent’anni? Nelle nostre scolaresche, più o meno interessate ai temi scientifici, si nascondono i futuri Einstein e Newton? In realtà, non è necessario aspettare il genio o l’evento eccezionale per definire un anno «mirabile»: anzi, la possibilità della meraviglia è continuamente presente in ogni programma di ricerca, così come in ogni piano di lavoro didattico. Di questo tuttavia l’ambiente scolastico non sembra molto convinto; e forse sta proprio qui una delle ragioni del crescente e preoccupante calo delle «vocazioni scientifiche» nelle nostre università.
Per sostenere la fatica della ricerca bisogna infatti credere fortemente che la conoscenza scientifica della natura sia possibile; che un esperimento ben impostato e ben condotto «può” dare un risultato. Sarà quello atteso, a conferma della validità delle ipotesi assunte e col progressivo consolidamento dei modelli adottati. Ma potrebbe essere anche essere l’emergere di un esito imprevisto, che costringe a rivedere alcuni aspetti delle teorie più affermate o ad immaginare nuovi approcci. Come ha fatto quel giovane sconosciuto impiegato dell’ufficio brevetti di Berna un secolo fa; e come è accaduto e accade nei movimentati percorsi della geologia e della cosmologia raccontati nelle pagine seguenti. In ogni caso, si tratta della stessa meraviglia e della stessa sor presa: perché, sia nella scienza rivoluzionaria che in quella normale – per usare le categorie di Thomas Khun – è già sorprendente e per nulla scontato il fatto che il comportamento della natura si riveli accessibile all’indagine umana.
La novità non è attribuibile solo ai periodo rivoluzionari e dalla normalità di tanta ricerca affiora, per chi la sa scorgere, una varietà e una esuberanza di forme, di strutture, di processi. Qui sta uno dei punti critici dell’educazione scientifica. Commentando le ultime riflessioni di Einstein sul metodo della ricerca, lo storico della scienza Gerald Holton sottolinea il «libero gioco della mente umana» che procede per immaginazione creativa operando quei «salti logici» che portano a fissare i concetti di base; da lì parte il processo rigorosamente deduttivo che genera una serie di affermazioni da sottoporre al controllo sperimentale. Ma quei salti rappresentano «il momento prezioso, di grande vigore, della risposta alla motivazione della meraviglia e della passione della comprensione che scaturisce dall’incontro con le caotiche esperienze».
Nelle nostre scuole, pur se attraversate dal vento della riforma, non succederà nulla di veramente mirabile finché non diventerà capillare e quotidiano uno stile e una consuetudine condivisa di insegnamento scientifico che faccia leva sulla capacità di stupore e sulla passione per la conoscenza.
Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 23 di Emmeciquadro