Se ne era parlato molto qualche anno fa e ora il problema del gas flaring potrebbe tornare attuale, soprattutto da quando i riflettori sono puntati sulla drammatica situazione di alcuni Paesi africani, come la Nigeria, dove il fenomeno è ancora particolarmente rilevante. Lo aveva descritto un anno fa, nell’ambito di un convegno promosso dalla Fondazione Lombardia per l’Ambiente, Renato de Filippo, responsabile Climate Change di Eni e ora il suo contributo si può trovare in uno speciale Quaderno della serie Etica e Ambiente.
Il fenomeno del gas flaring, poco noto al grande pubblico, deriva dal fatto che nei giacimenti petroliferi, al petrolio è quasi sempre associata una certa quantità di metano: i pozzi moderni sono predisposti per il recupero del gas, che così diventa un’ulteriore risorsa del giacimento. Tale recupero però implica che vi siano le infrastrutture necessarie al trasporto del gas nei luoghi di un possibile utilizzo: si tratta di strutture costose, non sempre facili da realizzare, che quindi non vengono implementate se le quantità di gas ricavato dal giacimento come prodotto “secondario” sono limitate, in quanto i costi delle strutture sarebbero superiori ai possibili ricavi.
Qual è allora la sorte del gas prodotto in eccesso? La modalità più diffusa per eliminarlo, almeno fino a qualche anno fa, è appunto il gas flaring, cioè la sua bruciatura tramite una torcia la cui fiamma brilla tristemente in cima alle torri petrolifere: si ha quindi una combustione controllata del gas prodotto nei giacimenti insieme al petrolio ma che non porta a nessun recupero di energia o di calore.
Il simbolo di questa situazione è condensato nelle immagini satellitari del Pianeta che, nelle foto notturne dell’Africa mostra all’altezza della Nigeria degli eloquenti punti brillanti che non sono certo le luci delle città. Di fronte a tali immagini, è inevitabile porsi la domande che ha posto De Filippo: «Quali sono le cause per cui una risorsa così importante come il gas, di cui c’è sempre fame, in Europa in particolare ma un po’ ovunque nel mondo, viene sfiaccolata?». E la risposta non può che essere quella già accennata: «È fondamentalmente la mancanza di condizioni di mercato e infrastrutture, per cui qualsiasi forma di investimento in questo campo non è economica e sostenibile».
In mancanza di adeguati metanodotti, in alcuni casi vengono messe in atto soluzioni semplici e poco costose: si procede, ad esempio, alla reimmissione nel giacimento per aumentarne la pressione e quindi il rendimento; oppure alla liquefazione del gas in piccoli impianti; o alla produzione in loco di energia elettrica; o ancora alla distribuzione del metano nelle aree urbane circostanti. Ma nelle zone più critiche, come quelle del centro Africa, tutto questo diventa difficile e comunque non basta.
De Filippo cita alcuni dati (aggiornati al 2010) raccolti dalla Banca Mondiale che ha valutato in 134 miliardi di metri cubi il quantitativo di gas sfiaccolato ogni anno, la maggior parte dei quali in Russia e un’altra larga fetta in Nigeria; ma ci sono stime, come quelle del Noaa (l’Agenzia Nazionale Usa per gli Oceani e l’Atmosfera) che parlano di 150 – 170 miliardi di metri cubi; si noti che cifre del genere sono superiori al consumo annuale di Paesi come la Francia e la Germania messe insieme.
La stessa Banca Mondiale si era fatta carico del problema tanto che nel 2002, in occasione del World Summit on Sustainable Development di Johannesburg, aveva lanciato l’iniziativa “Global gas flaring reduction” (Ggfr), nata per ridurre al minimo queste fiammate che, oltre allo spreco, hanno anche un effetto inquinante notevole. L’organizzazione oggi conta l’adesione di una ventina di partner industriali, in pratica le più grandi compagnie petrolifere, compresa l’italiana Eni. Tra le sue azioni ci sono la stesura di linee guida per la riduzione del flaring e la diffusione di buone pratiche e di case history di successo per supportare le iniziative di governi, istituzioni e aziende.
Come quelle della stessa Eni, che ha ulteriormente incrementato l’obiettivo di riduzione del gas flaring puntando a portarlo entro il 2014 all’80% di riduzione rispetto ai livelli del 2007. Ciò rientra nel più generale Piano di azioni Eni, volto alla mitigazione dei cambiamenti climatici e che si focalizza principalmente proprio sulla riduzione del gas flaring oltre che sulla promozione dell’efficienza energetica. Per raggiungere tali obiettivo, sono in corso d’implementazione numerosi progetti in Algeria, Congo, Libia, Indonesia, Nigeria, Tunisia, Kazakhstan volti alla realizzazione di nuove e moderne infrastrutture quali condotte per il trasporto gas, centrali termoelettriche ad alta efficienza e impianti di liquefazione gas.
(Michele Orioli)