Spesso importanti scoperte scientifiche sono del tutto casuali. È quel che è successo a William Metcalf e al suo team presso l’Università dell’Illinois nell’ambito di uno studio su alcuni composti antibiotici. Analizzando il Dna di un comunissimo batterio marino, il Nitrosopumilus Maritimus, i ricercatori hanno infatti isolato alcuni geni che ritenevano utili al loro studio, ma che hanno invece consentito di svelare finalmente il cosiddetto “paradosso del metano oceanico”.
É ormai noto da tempo che oltre il 4% del metano presente sulla Terra si trova negli Oceani, ma il modo in cui esso viene prodotto è a lungo rimasto un mistero. Ad essere precisi, i diretti responsabili della produzione di metano sono già stati identificati da qualche anno. Si tratta di batteri aerobi di specie diverse, capaci di estrarre lo ione fosfato, necessario per la loro sopravvivenza, da una particolare sostanza: l’acido metilfosfonato (un composto di carbonio e fosforo). Ma cosa c’entra il metano in tutto questo? Semplice: il prezioso gas non è altro che un sottoprodotto di questa reazione. Quel che restava ancora da chiarire era però il passaggio precedente, ossia l’origine della “materia prima” della reazione: l’acido metilfosfonato sembrava infatti comparire dal nulla.
Le ricerche del gruppo di Metcalf hanno accidentalmente svelato l’anello mancante. “Un gruppo di composti antibiotici che ci interessa molto si basa sugli acidi fosfonici, quindi stiamo studiando gli organismi che sono in grado di sintetizzarli“, ha spiegato Metcalf. I ricercatori, scoperto nel Dna del N. Maritimus un gruppo di geni che sembrava in grado di produrre fosfonati, hanno quindi deciso di isolare i singoli geni e di analizzarli più nel dettaglio.
Studiando l’attività dell’enzima sintetizzato a partire da uno di questi geni, i ricercatori hanno scoperto che esso porta alla produzione proprio del “misterioso” metilfosfonato. Poiché il Dna di altre specie di batteri marini presenta sequenze geniche simili a quelle del N. Maritimus, la quantità di acido metilfosfonico prodotto complessivamente dovrebbe essere tale da spiegare l’anomala concentrazione di metano nei nostri oceani.
Anche se grazie a questa scoperta il ciclo oceanico di produzione del metano è stato interamente compreso, restano ancora molte altre questioni irrisolte.
In un articolo pubblicato recentemente su Nature, ad esempio, un team internazionale di scienziati ha avanzato l’ipotesi che sotto lo spesso strato di ghiaccio che ricopre l’Antartide possano trovarsi più di 20 miliardi di tonnellate di carbonio organico. “Spesso ci dimentichiamo che oltre 35 milioni di anni fa l’Antartide era brulicante di vita“, spiega Slawek Tulaczyk, uno degli autori dell’articolo, “parte del materiale organico prodotto da questa vita è stato intrappolato nei sedimenti, che sono poi stati isolati dal resto del mondo quando i ghiacci si sono espansi“.
E Jemma Wadham, una degli altri autori dell’articolo, aggiunge “i nostri esperimenti di laboratorio ci hanno rivelato che questi ambienti al di sotto della crosta ghiacciata sono anche biologicamente attivi. Questo significa che probabilmente questo carbonio organico è stato ed è tuttora metabolizzato in anidride carbonica e metano ad opera dei batteri“.
Il metano immagazzinato sotto i ghiacci non si trova però allo stato gassoso come ci potrebbe aspettare, ma appare piuttosto simile al ghiaccio circostante. Questo perché ponendo del metano a contatto con l’acqua in condizioni di alta pressione e bassa temperatura si ottiene idrato di metano. Le molecole d’acqua intrappolano ogni singola molecola di gas, formando una struttura rigida e ordinata intorno ad essa, una vera e propria gabbia. Tuttavia le proprietà di questo “gas congelato” non cambiano: l’idrato di metano è infatti infiammabile e, una volta fuso, libera nuovamente il gas intrappolato.
Ma quanto carbonio organico è stato finora convertito in metano ad opera dei batteri? Tanto: stando alle simulazioni numeriche effettuate dai ricercatori, sotto l’Antartide potrebbero trovarsi fino a 4 miliardi di tonnellate metriche di gas, una quantità all’incirca pari a quella contenuta nelle regioni perennemente gelate dell’emisfero Boreale.
Quest’enorme riserva potrebbe quindi aiutare a risolvere temporaneamente i problemi energetici del nostro pianeta nella difficile fase di transizione verso fonti energetiche rinnovabili. Tuttavia se la calotta glaciale dovesse sciogliersi troppo a causa del riscaldamento globale, il metano potrebbe venire liberato bruscamente in atmosfera, amplificando ulteriormente l’effetto serra.
“Il nostro studio sottolinea la necessità di continuare l’esplorazione scientifica degli ambienti remoti sepolti sotto il ghiaccio antartico“, conclude Tulaczyk “perché potrebbero avere sul clima globale un impatto molto più forte di quello verificatosi in passato!“.