Cosa c’è di meglio di una bella crisi in Libia per far rialzare il prezzo del petrolio e porre un freno al crollo del mercato shale oil Usa, incapace di sostenere la produzione a questi prezzi al barile e contestualmente mettere pressione su quell’Arabia Saudita che ha dato il via al tonfo finale del greggio? Me lo chiedevo l’altra sera, mentre a “Piazzapulita” venivano evocati scenari apocalittici con i tagliagole dell’Isis sul Grande raccordo anulare pronti a decapitare chiunque si frapponesse tra loro e il Vaticano. Ora, al netto dell’ironia, che quella del Califfato sia una minaccia seria è fuori di dubbio, ma occorre non cedere alla pancia e all’emozione e ricordarsi chi ne ha permesso la nascita – gli Usa – e come siano arrivati così in fretta e senza troppe difficoltà in Libia, dopo aver triplicato i territori sotto il loro controllo in Siria ed essersi di fatto presi l’Iraq, il tutto a fronte di formali raid aerei della cosiddetta coalizione anti-Stato islamico che avrebbe dovuto fermarne l’avanzata.
Insomma, qualcosa non torna. E a dimostrarci che gli interessi in gioco sono più alti e le trame ordite a più alto livello che la sola volontà di jihad dell’Isis ci pensa proprio il petrolio. Il quale ieri è salito a 62 dollari al barile, vicino ai massimi del 2015, proprio grazie al “supporto” che la tensione montante in Medio Oriente garantirebbe al rally: i bombardamenti egiziani contro obiettivi dello Stato islamico in Libia, Paese dove la violenza sta mettendo a rischio la produzione e la minaccia del governo autonomo del Kurdistan iracheno di bloccare le sue esportazioni se Baghdad non parteciperà pro-quota al budget, sono bastati a spingere al rialzo i prezzi, di nuovo però in calo nel pomeriggio, molto probabilmente per fattori tecnici dopo il picco e per qualche manina sui futures in vista della chiusura al Nymex.
Per Carsten Fritsch di Commerzbank, «il prezzo del petrolio sta trovando ulteriore supporto dalla rinnovata e più grande percezione di rischio per le forniture. Nel breve termine, il barile potrebbe salire ancora». E in effetti il prezzo del Brent è salito di quasi il 40% nelle ultime quattro settimane, supportato anche dalle chiusure sempre più emorragiche di impianti legati allo shale oil statunitense. Ma l’International Energy Agency dice anche altro, legato al medio termine: per il capo economista, Fati Birol, l’ascesa del Califfato in Iraq e Siria rappresenta una sfida enorme, poiché mette in discussione gli investimenti necessari per prevenire una carenza di petrolio nella prossima decade, visto che «l’appetito per investimenti in Medio Oriente è vicino allo zero, vista l’imprevedibilità della situazione nell’area».
Insomma, dobbiamo prepararci a un rally al rialzo dell’oro nero tutto legato alla minaccia islamica, nonostante fino all’altro giorno fosse l’eccesso di offerta a fronte di domanda in calo, visto lo stato di quasi recessione dell’economia globale, a giustificare i prezzi ai minimi record? Stranamente, quasi tutti gli analisti dicono di no. Per Tom Kloza, capo analista all’Oil Price Information Service, i prezzi del petrolio troveranno il loro bottom solo durante la metà del secondo trimestre di quest’anno, «in concomitanza di una delle date di scadenza dei contratti sul Wti, ma penso che il ciclo al ribasso abbia ancora parecchia strada da fare e proprio nei prossimi tre mesi il Wti potrebbe arrivare in area 30 dollari al barile. Di più, lo spread tra Brent e Wti potrebbe allargarsi oltre i 10 dollari. A muovere molte dinamiche è ancora lo shale oil e il dato sulle chiusure degli impianti è molto fuorviante».
Insomma, la crisi del petrolio sarebbe magari non proprio all’inizio, ma certamente neppure alla fine. E il problema non è tanto per le aziende petrolifere a livello di produzione e gestione dell’operatività a questi prezzi, quanto per la finanziarizzazione del petrolio come commodities a preoccupare gli Stati Uniti: se infatti i prezzi restassero a questo livello per il resto dell’anno, vedremmo molto aziende fallire, miliardi di dollari di loro debito emesso andare incontro al default e qualche triliardo di dollari di derivati legati al comparto implodere. Uno studio di Deutsche Bank pubblicato la scorsa settimana dimostrava come, a fronte delle previsioni di price/earning dei titoli energetici quotati allo Standard&Poor’s ormai oltre quota di multiplo 26x, più della bolla dot.com, per riportare quella follia a un livello normalizzato attorno al 15x bisognerebbe che il petrolio tornasse a 70 dollari al barile e restasse in quell’area o anche più alto per l’intera seconda metà di quest’anno, come ci dimostra il grafico a fondo pagina. Ma anche Goldman Sachs ha dedicato un report all’argomento e la conclusione cui è giunta è la medesima: la ragione primaria del calo del prezzo del petrolio è l’abbondanza dello stesso sul mercato a livello di offerta, soprattutto a partire dal secondo semestre del 2014.
Per l’economista della banca d’affari, Sven Jari Stehn, «il mercato del petrolio è cambiato fondamentalmente e questo significa che il prezzo dell’oro nero non sta per ritornare sui livelli che abbiamo conosciuto. Il calo del prezzo è stato dovuto a una sovra-offerta sul mercato globale, quindi come risultato di questa situazione abbiamo il fatto che il nuovo equilibrio del prezzo sarà con ogni probabilità molto più basso rispetto alla scorsa decade». Addirittura, Citigroup – dopo aver abbassato le sue previsioni sul prezzo – ha azzardato in un report firmato da Edward Morse, capo del centro ricerche sulle commodities, che il petrolio, dopo questo falso rimbalzo, potrà terminare per un periodo relativamente breve anche in area 20 dollari al barile.
Il perché è presto detto: «Nonostante l’abbassamento della spesa a livello globale, Russia e Brasile stanno pompando a livelli record, Arabia Saudita, Iran e Iraq stanno lottando per mantenere le loro quote di mercato e stanno già vendendo a sconto in Asia. Il mercato è sovra-fornito di petrolio e tra poco finirà anche lo spazio fisico per gli stoccaggi». E attenzione, perché se il petrolio arriva a 20 dollari, uno shock finanziario è virtualmente garantito. C’è poi il fronte maggiormente sensibile e più esposto ai rischi della finanziarizzazione, ovvero quello dello shale oil statunitense, passato – come ci insegna la teoria dei cicli della Scuola austriaca – dalla fase di boom a quella attuale di quasi bust.
La fase espansiva del business cominciò nel 2005, crollò durante la crisi finanziaria post-Lehman, ma poi ha beneficiato quasi come nessun altro del denaro a pioggia della Fed: dal minimi del maggio 2009 al picco dell’ottobre 2014, gli impianti per il drilling sono passati da 180 a 1609, moltiplicati per nove volte in 5 anni, portando la produzione al massimo di 9,2 milioni di barili al giorno! Il problema è che la produzione di shale oil costa e necessita di un punto di breakeven ben più alto dei livelli attuali di prezzo, ma siccome si pensava che la festa non sarebbe mai finita, una quantità enorme di persone, tra cui molti fondi pensione un po’ spericolati, ha investito in titoli, junk bonds, prestiti a leva e quant’altro l’ingegneria finanziaria sa creare durante il boom di un settore.
Ora potrebbe essere arrivato il momento di pagare il conto, a festa finita. Sembra il 2008, solo che invece delle case ci sono gli impianti estrattivi. I quali in questo periodo stanno chiudendo a ritmi senza precedenti, visto che a oggi ne sono operativi solo 1056, -34% dal picco di ottobre dello scorso anno, come ci mostra il grafico a fondo pagina. Se per caso poi questa tendenza non si invertisse, ma anzi prendesse maggiore forza e dovesse arrivare a pareggiare il tonfo toccato nel 2009, -60%, arriveremmo all’ecatombe di soli 642 impianti attivi negli Usa. Ma nonostante questo, la produzione di petrolio statunitense è continuata a crescere, di fatto aumentando ancora l’offerta globale e spingendo il prezzo verso dinamiche ancora più ribassiste! La scorsa settimana, infatti, gli Usa hanno pompato al livello massimo dagli anni Settanta a oggi, tanto che sempre Goldman Sachs ha sancito che «la notizia a sensazione della chiusura record di impianti ci offre poco a livello di visione dall’interno riguardo l’outlook di crescita della produzione Usa». Ma c’è qualcuno che sembra voler mettere la questione della sovra-offerta in secondo piano e incolpare delle dinamiche ribassiste altri fattori, in primis la speculazione sui futures.
Ed eccoci entrare nella parte più politico-diplomatica della disputa. Nonostante solo due anni fa Barack Obama promise maggiori fondi e poteri alla Commodity Futures Trading Commission, l’autorità di vigilanza del settore, non solo questi non arrivarono – se non sotto forma di minaccia di maggior quantità di denaro richiesta per garantire una posizione di trading – ma attraverso la Fed e il suo Qe pro-distorsione dei mercati (petrolio in testa), il presidente Usa ha reso possibile il boom&bust dello shale oil e fatto praticamente il solletico agli speculatori sul petrolio di carta. E proprio contro questa categoria investitori si è lanciato durante il weekend Igor Sechin, amministratore delegato della più grande azienda petrolifera quotata russa, la Rosneft. In un attacco senza precedenti, Sechin ha dichiarato al Financial Times che «nell’attuale e distorto mercato del petrolio, i prezzi non riflettono la realtà. Sono mossi da speculazione finanziaria, la quale scalza i fattori reali di domanda e offerta. I mercati finanziari tendono a produrre bolle economiche e queste bolle tendono a esplodere. Ricordiamoci il crollo del mercato dot.com o la crisi dei subprime. Oltretutto, questi mercati sono proni alla manipolazione. Non abbiamo dimenticato la manipolazione del tasso di interesse benchmark del Libor e del prezzo dell’oro».
E ancora: «Bolle finanziarie, manipolazioni del mercato, regolamentazione eccessiva, disparità tra aree geografiche, è tutto così grottesco che ti viene quasi da chiedere se per il petrolio esista davvero un “mercato”. Certo, c’è la sembianza di un mercato, c’è chi vende, chi compra e ci sono i prezzi, ma stanno soltanto recitando una sciarada. Cosa andrebbe fatto? Primo, gli investitori finanziari non dovrebbero più poter avere tutta questa influenza sul prezzo del petrolio. Negli stessi Stati Uniti, i senatori Carl Levin e John McCain hanno chiesto che si facciano dei passi avanti per prevenire la manipolazione dei prezzi e questi programmi devono essere implementati, ma come e quando rimane ancora una domanda senza risposta. In ogni caso, le autorità devono fare di più, assicurando che almeno il 10-15% del trading legato al petrolio implichi la reale consegna del bene fisico. Al momento, quasi tutti i trading sul petrolio sono condotti da traders finanziari, che scambiano niente se non pezzi di carta o impulsi elettronici».
Enrico Mattei per molto meno ci ha lasciato la pelle, visto che mettere in dubbio il mercato dei derivati sulle commodities significa schiantare un business da qualche triliardo di dollari per le principali banche d’affari globali, Usa in testa ovviamente. E che la situazione si stia facendo pesante lo dimostra l’applicazione data dal presidente della Fed di Dallas, Richard Fisher, alla regola aurea di Alan Greenspan, ovvero «quando le cose si mettono davvero male, devi mentire». E cos’ha detto infatti il governatore della Banca centrale dello Stato più dipendente dalle sorti del petrolio intervistato da Cnbc? «Il crollo dei prezzi del petrolio è positivo per il Texas a livello netto, perderemo infatti circa 150mila posti di lavoro nel settore, ma ricollocheremo quella gente in altri ambiti visto che viviamo in una società dei consumi e i bassi prezzi del petrolio sono una buona cosa per tutti in tal senso». Davvero? I primi due grafici a fondo pagina paiono dire il contrario, visto che l’emorragia di posti di lavoro del Texas comincia ad andare fuori controllo, stando al dato delle richieste iniziali di sussidio di disoccupazione e lo stimolo, quasi una taglio fiscale invisibile, garantito da bassi prezzi energetici non sta affatto impattando sul dato delle spese retail.
Insomma, quella dell’arma terrotistica e dell’instabilità mediorientale sembra l’unica variabile in grado di spingere al rialzo i prezzi del petrolio, nonostante i fondamentali macro di domanda e offerta non offrano spazi in tal senso (ma l’esempio della Fed e dei mercati azionari ci ha insegnato che dei fondamentali sottostanti si può fare benissimo a meno). Oltretutto, l’ampia destabilizzazione in corso nell’area potrebbe portare con sé il primo premio per chi volesse regolare qualche conto in sospeso e determinare un nuovo ordine geopolitico: l’Arabia Saudita, di fatto l’Opec, la quale è in questi giorni circondata da fanatici islamici di ogni risma. Lo Yemen recentemente caduto nella mani di fondamentalisti, il sempre ostile Iran attraverso il Golfo Persico, a Nord con Iraq e Siria nella mani del Califfato per gran parte ed Egitto e Libia attraverso il Mar Rosso. Se cade l’Arabia, è game over per l’era moderna come l’Occidente l’ha conosciuta e potrebbe cambiare parecchio anche per l’Asia, stanti le dinamiche attuali, fortemente legate proprio al petrolio.
Già, perché nel silenzio generale dei media, da due settimane il gigante petrolifero statale saudita Aramco sta vendendo l’Arab Light a prezzo di sconto sul mercato asiatico, un taglio di 90 centesimi che ha portato il petrolio saudita a costare 2,30 dollari in meno al barile rispetto ai benchmarks mediorientali, lo sconto maggiore da 14 anni a questa parte, come ci mostra il terzo grafico.
La ragione? Ce la spiega Bill O’Grady, capo strategist alla Confluence Invstment Management di St. Louis: «Questa è un’ulteriore prova del fatto che Riyad sta facendo di tutto per proteggere la sua quota di mercato in Cina. Stanno cercando di restare competitivi in quella che è l’area del mondo con maggiore crescita». Il tutto in un contesto che vede sempre più i produttori mediorientali competere con i cargo dall’America Latina, dall’Africa e dalla Russia diretti verso acquirenti in Asia: la Cina, stando a dati Iea, nel 2014 è stato il secondo consumatore di petrolio al mondo proprio dopo gli Usa. Per Olivier Jakob, direttore esecutivo alla Petromatrix di Zug, in Svizzera, «l’Asia è anche ancora il mercato che vogliono tenere, quindi abbassano i prezzi per mantenere il loro petrolio attraente». E conclude ancora O’Grady: «Il mercato Usa è sempre stato quello per il cui mantenimento i sauditi erano più preoccupati, ma non è più così. La Cina è il Paese da cui i sauditi vedono arrivare la crescita per le prossime decadi e gli Usa stanno già producendo anch’essi un grande percentuale del petrolio di cui Pechino ha bisogno».
Insomma, guerra commerciale senza esclusione di colpi, partendo dall’Opec con la sua decisione schianta-prezzi fino ad arrivare al dumping sui prezzi nel mercato principale, quello asiatico. E la connection cino-saudita va a impattare sul mercato petrolifero Usa anche in un altro modo, visto che la scorsa settimana Global Times rendevano noto che «il crollo dei prezzi del petrolio ha innescato un flusso di investimenti cinesi nel pozzi petroliferi, in quella che viene vista come una scommessa per ottenere un alto profitto dall’oro nero». Avete capito bene, i cinesi stanno cominciando a comprare impianti di estrazione negli Stati Uniti, con la Global House Buyer, un provider di servizi per investitori esteri con base a Pechino, che due sabati fa ha annunciato di aver presentato un’opportunità di investimento per un sito di estrazione da 2240 acri a Crockett County, in Texas, a investitori cinesi.
Cooperando con sviluppatori locali, il progetto dovrebbe attrarre 4 milioni di dollari di investimento totale in una prima fase, con l’investimento minimo fissato a 100mila dollari per posizione: l’azienda spera e valuta in un return annuale di oltre il 12%. Insomma, lo shopping cinese in casa: dopo il debito, Pechino mette le mani anche sul petrolio Usa. O, almeno, ci prova grazie ai prezzi bassi che costringono sempre più produttori statunitensi a chiudere o a bloccare nuovi progetti. Ma quando ci sarà il rimbalzo – e ci sarà – quegli investimenti dei cinesi potrebbero davvero diventare molto remunerativi: troppo da sopportare per Washington, che operando in Medio Oriente colpirebbe due piccioni con una fava, ovvero Riyad e Pechino. A quale prezzo, però, per la stabilità globale in un contesto già molto destabilizzato?
Negli Usa, soprattutto all’interno dei corpi intermedi del potere, in questo momento pare non interessare troppo: c’è la primazia economia e finanziaria globale in gioco, oltre al sistema finanziario da puntellare da eventuali implosioni legate al comparto petrolifero su bond, azioni e derivati. E di fronte a certe sfide, non si fanno calcoli. Né prigionieri. Si sta davvero scherzando con il fuoco in questo momento nel mondo e si sa che gli incendi più grossi a volte divampano per un semplice mozzicone di sigaretta spento male.
Guardate questi due grafici, sono parte del report mensile “BBVA Research conflict & social unrest monthly update”, creato dalla banca spagnola BBVA e ci mostrano come il numero di conflitti nel mondo è al massimo da sette anni, mentre il numero di proteste a livello globale è schizzato al rialzo dal 2011 in poi, dopo essere precipitato per quattro anni a partire dal 2007. Stiamo entrando in tempi pericolosi. E dagli esiti molto incerti. E tenete a mente un cosa: se il capo di Rosneft nella sua intervista-intemerata al Financial Times cita il senatore John McCain, uno che con l’Isis ha tenuto rapporti fin dalla sua creazione, come paladino anti-speculazione petrolifera, vuol dire che il gioco della dissimulazione è completamente in atto e per ora perfettamente riuscito.
Siamo alla “teoria dei giochi” allo stato puro. Peccato che in gioco ci siano le sorti della stabilità e della pace a livello globale.