ENZO JANNACCI/ E Giorgio Gaber: più che due amici, “due corsari”

- Paolo Vites

Dieci anni fa moriva Enzo Jannacci, che con Giorgio Gaber fu la voce dell'Italia del dopo guerra che rinasceva dalle macerie

ENZO GABER 640x300 Enzo Jannacci e Giorgio Gaber

All’inizio era il rock’n’roll. Un rock’n’roll travolgente, esagerato che neanche in America si sognavano di suonare. Basti pensare a quell’intro di basso funk che apre Birra, che anticipa di trent’anni certe pulsioni della futura musica black. E se i giovani di oggi, che si fanno grossi quando chiedono al barista l’ennesimo “shottino”, loro li avevano anticipati già allora: “Portaci da bere uno shot di birra, ma presto”.

Poi erano le voci, perfettamente melodiose e fuse tra di loro in modo magistrale, stile Everly Brothers. Ma loro erano oltre: “Affrontavamo il rock’n’roll in modo ironico, stile Alberto Sordi in Un americano a Roma”. E infatti, prima di Squallor, Skiantos, Elio e le storie tese e tanti altri, avevano già inventato il rock demenziale. Perché loro due, I due corsari, prendevano di mira tutti e tutto, il loro credo era spiazzare e lasciare con un mucchio di domande gli ascoltatori. Lo avrebbero fatto per tutta la vita. Eppure, nell’unico brano scritto insieme, Zitto, prego, faceva capolino qualcosa di strano: “No, no non fischiare, no, no non cantare, no, perché la nostra vita è triste, uffa!”.

Ma come si permettevano di usare quell’espressione, triste, in pieno boom economico, di sfrenata gioia nell’Italia che si ricostruiva dopo lo sfascio della Guerra mondiale? La tristezza era finita con la guerra, no? E invece no. La tristezza ce la portiamo dentro e loro l’avrebbero sempre cantata. Ma non era la tristezza di uno sconfitto, la tristezza del ricco che vuole sempre di più, la tristezza di chi si sente deluso perché non riesce a possedere il mondo, ma quella di chi ha “un cuore urgente”, che nulla gli basta e continua a cercare. Come diceva Carmelo Bene: “Siamo quel che ci manca. Da per sempre. Vi è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento”.

Per una bizzarra coincidenza del destino, perché il destino è sempre bizzarro, Giorgio Gaber, più giovane di Jannacci di quattro anni, è morto dieci anni prima di lui, il primo gennaio 2003. Enzo lo avrebbe seguito il 29 marzo 2013. Così capita che quest’anno si ricordino i due anniversari contemporaneamente, vent’anni dalla morte di Gaber, dieci da quella di Jannacci.

Diversi e uguali. Vicini e lontani, ognuno per la sua strada, i due corsari. Ogni tanto di nuovo insieme. Come per la folle avventura degli Ja-Ga Brothers che li vide, nei primi anni 80, tornare a fare musica insieme, con un occhio sempre all’America, vestendo i panni dei Blues Brothers. O quando osarono sfidare l’impossibile, portando Samuel Beckett in teatro con il suo capolavoro Aspettando Godot. E se Gaber esperienza di teatro ne aveva già tanta, per Jannacci sembrava qualcosa di troppo esagerato. Ma lui aveva fatto dell’esagerazione la sua vita: approcciare un’opera del genere. In una intervista di allora, i due scoprono le carte, soprattutto Enzo: “Jannacci: “All’inizio ero un po’ sorpreso, un po’ stravolto, perché… ma qua non si ride mai? Com’è, è un sopruso, è un falso. Cioè, non per presunzione, ma Giorgio sa fare cose più belle!”. Gaber: “Ah, ah, ah. È pazzo, è proprio pazzo…”. Jannacci: “Sì, io sono pazzo ma non sono mica scemo”.

Già. Enzo era pazzo, davvero, ma non scemo. Gli riusciva benissimo di farlo a volte, ma scemo proprio non era. Aveva una laurea al conservatorio in pianoforte, composizione, armonia e direzione d’orchestra e, come non bastasse, si era laureato anche in medicina ed era diventato un affermato cardiologo.

Gaber? Anche lui un po’ pazzo lo era, ma con una fisionomia da intellettuale, uomo di politica e di teatro: “Giorgio era eccezionale come attore” disse di lui Enzo poi dopo la sua scomparsa. Ricordò quella loro ultima apparizione insieme, tutti quanti, gli amici della Milano degli anni 50, una Milano scomparsa, sul palco davanti alle telecamere come dei reduci, dei sopravvissuti a ogni genere di intemperie: Jannacci, Gaber, Dario Fo e Adriano Celentano. Il programma, 125 milioni di cazzate, era il suo, del molleggiato, e chissà come mai li aveva voluti riunire tutti, forse aveva capito che di tempo ne rimaneva poco. Jannacci all’inizio in realtà non era stato invitato. Racconta lui che quando Gaber si trovò con Fo e Celentano e decisero che avrebbero cantato Ho visto un re, Giorgio sbottò: “Se non viene anche Enzo non si può fare”. “Rimasi commosso” dice “non era obbligato a dirlo”.

Il tempo stava scadendo. Neanche due anni dopo Gaber se ne andò. Poi Jannacci e infine anche Fo.

“E’ stato pesante vederlo arrivare in chiesa nella bara, ancora di più quando l’hanno portato via, perché quando l’hanno portato via non c’era più” dirà Jannacci dell’amico Giorgio. La stessa cosa vale per lui. Quanto fu pesante quel giorno di dieci anni fa quando lo portarono via.

Ma due personaggi così, due corsari, in realtà non sono mai andati via. Certo, il tempo che passa posa un po’ di grigia polvere sul ricordo di loro come lo fa con tutti i ricordi. Non si dice mica “nella vita ci si dimentica di tutto, anche dei morti”? Soprattutto di Jannacci sembra che ci si voglia dimenticare in fretta. Troppo scomodi per un mondo cialtrone e banale come quello di oggi, due che cantano ridendo sguaiatamente che nella vita c’è tristezza. E che la vita è bella, proprio per quello. In una ambiente dove oggi le canzoni sono insulti volgari, trasgressioni da quattro soldi e dove ci si guarda solo l’ombelico, non l’altro che ci sta davanti, i due corsari sono sempre lì, ad ammonirci che la vita è qualcosa di più grande di un social.

Alla fine è stata tutta “roba minima”: barboni, tossici, prostitute coi calzett de seda, ma anche cani coi capelli o telegrafisti dal cuore urgente.

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