La liberazione di Sirte da parte delle milizie di Misurata, supportate dai raid americani, è oramai conclusa. Lo ha ribadito anche Fayez Serraj, premier del Consiglio presidenziale, il 17 dicembre, durante un discorso pronunciato in occasione del primo anniversario degli accordi di Skhirat che hanno dato vita, almeno sulla carta, al Governo di Accordo Nazionale a marchio Onu. Se lo stato islamico se ne va, almeno da Sirte, i problemi in Libia restano. In primo luogo, come ribadito anche da Serraj, la guerra contro il terrorismo in Libia non è finita. I miliziani dell’Isis a Sirte — circa 3mila prima dell’inizio dell’offensiva — non sono stati tutti uccisi o catturati. Molti sarebbero fuggiti verso il sud del Paese, nel desertico Fezzan. Da qui, grazie anche ai fiorenti traffici della zona, potrebbero riorganizzarsi per ordire nuovi attentati, dentro e fuori la Libia.
In secondo luogo, forse non troppo causalmente, la notizia arriva in momento molto delicato per il Governo “unitario”. A Tripoli, dove Serraj si era insediato già nello scorso marzo, le cose non vanno tanto bene. Poco più di un mese fa alcune milizie islamiste avevano fatto irruzione nella sede del Consiglio di Stato, aprendo la strada al redivivo ex primo ministro Khalifa Ghwell, che aveva colto la palla al balzo per tentare di reinsediarsi, con i suoi, nella capitale. Pericolo rientrato ma tanto basta per comprendere il caos che regna in città. Le milizie fedeli al governo Onu e quelle fedeli a Ghwell, continuano ad ingaggiare scontri per affermare i propri interessi e il proprio potere. Detta in altri termini, Serraj non controlla neppure Tripoli dove, de facto, ci sono quasi due governi, uno appoggiato dall’Onu e un altro che vorrebbe rovesciarlo. Ci sono poi le milizie di Misurata, composte da circa 40mila uomini e da vari gruppi. Fin qui fedelissime a Serraj e compatte contro il nemico comune, chi ci assicura che manterranno intatto il loro sostegno al premier di Tripoli o, peggio, che non si divideranno ora che potrebbe essere arrivato il momento di spartirsi una fetta della torta?
Come se non bastasse Haftar, che guida il “governo parallelo” della Cirenaica, è sempre più forte e gode del sostegno di importanti attori regionali e internazionali. Tra questi, la Russia di Putin, oramai, volenti o nolenti, attore indispensabile nel panorama internazionale. Non stupisce, dunque, che il generale guardi con interesse ben al di là del Golfo della Sirte.
A confermare l’adagio che i problemi non arrivano mai da soli, poi, Serraj potrebbe aver perso i due alleati internazionali di maggior peso: Barack Obama e Matteo Renzi. La presidenza americana di Donald Trump sembra destinata a spostare l’asse verso una maggiore convergenza con la Russia e il suo sistema di alleanze regionali.
Questo, come già accennato, potrebbe comportare un rafforzamento della posizione di Haftar. Infine, le dimissioni di Matteo Renzi, pur non implicando in alcun modo la fine dell’impegno del governo italiano accanto al “premier unitario”, potrebbero però privare Tripoli di un interlocutore consolidato.
Nonostante la buona notizia della liberazione di Sirte, dunque, la Libia è ancora un “non Stato” instabile e diviso, in cui è alto il rischio legato alla sicurezza interna ed in cui manca un’autorità in grado di controllare il territorio. L’errore più grande sarebbe quello di dire “mission accomplished” e lasciare di nuovo il Paese al suo destino. E’ necessario partire da qui, invece, per fare in modo di ristabilire un barlume di sicurezza e stabilità interna e gestire la necessaria ripresa economica. L’Italia, da questo punto di vista, se vorrà, potrà fare ancora molto.