La recente visita di Haftar alla portaerei russa Admiral Kuznetsov, di rientro da una missione effettuata nelle acque siriane, corona la partnership strategica con la Russia, già avviata da tempo, che potrebbe consentire al generale un ulteriore rafforzamento nel labile quadrante libico.
Perché Putin sostiene Haftar e cosa vuole dalla Libia? Per rispondere dobbiamo allargare lo sguardo, per lo meno a tutta l’area del Nord Africa e del Medio Oriente.
Qui la Russia, oltre a voler assurgere al ruolo di “attore indispensabile” per le dispute geopolitiche, ha bisogno di mantenere vivi i suoi introiti con i partner regionali che soddisfano il suo mercato. Vista da questa prospettiva, possiamo interpretare la strategia russa muovendoci per lo meno su tre direttrici.
La prima è quella economica. A partire dal ritiro delle truppe Usa dall’Iraq, la Russia ha inaugurato un “new deal” della propria politica economica, volto ad instaurare rapporti commerciali con i paesi della regione mediorientale, seguendo due strumenti. Il primo è quello ben noto delle commesse militari. Il secondo, per certi versi più inedito, è la cooperazione energetica. La “diplomazia dell’atomo”, così come chiamata da più parti, sembra essere il nuovo asset del Cremlino. Un caso emblematico è rappresentato dalla Giordania. Amman, dopo lo scoppio della crisi siriana, ha dovuto fronteggiare un massiccio afflusso di profughi, con gravi conseguenze per l’approvvigionamento di risorse idriche e soprattutto energetiche. L’agenzia nucleare russa Rosatom è prontamente intervenuta, siglando con la Commissione per l’energia atomica della Giordania un accordo da 10 miliardi di dollari per la realizzazione di una centrale nel nord del paese che entrerà in funzione a partire dal 2024. Anche l’Egitto sembra interessato al know how russo. Nel 2015, nel corso di una visita di Stato al Cairo, Putin ha promesso di aiutare l’amico al Sisi nella costruzione di una centrale nucleare, fornendo tecnologia e formazione per il personale.
Sarebbe però riduttivo ricondurre tutto a meri interessi economici. C’è in ballo molto di più. Cartina alla mano, notiamo che la Libia è solo un tassello, forse neppure troppo importante, della partita russa in Medio Oriente e Nord Africa. Qui Putin ha sempre avuto una chiara strategia, a differenza di Obama. In Siria ha combattuto tanto l’Isis quanto tutti gli altri gruppi jihadisti. Sostiene apertamente Assad ed è da tempo alleato con l’Iran. In Nord Africa ha favorito la “controrivoluzione” del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, foraggiandolo con forniture di armi. Ha rapporti eccellenti con gli israeliani. Putin e Netanyahu si chiamano quasi ogni settimana. Una strategia chiara che, tra l’altro, si è giovata delle indecisioni americane e più in generale dell’occidente, lacerato dai disaccordi sulle politiche migratorie e di counter terrorism, indebolito economicamente e, in ultima analisi, carente di leadership.
Infine, c’è un motivo di ordine geostrategico. Una delle direttrici della politica estera russa è stata la ricerca di un accesso ai mari caldi per bypassare il problema del congelamento dei porti russi nei freddi mesi invernali. Facciamo un passo indietro. Fin dal diciannovesimo secolo la Russia ha tentato di ottenere un accesso al Mediterraneo. Allora, però, gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, che collegano il Mar Nero all’Egeo, erano controllati dall’Impero Ottomano. La pace di Santo Stefano, firmata il 3 marzo 1878, al termine della guerra turco-russa del 1877-1878, sembrava aprire un nuovo capitolo per il controllo su queste aree strategiche poiché la Bulgaria, alleata di San Pietroburgo, otteneva gli sbocchi sull’Egeo e sul Mar Nero. Tuttavia, il successivo Congresso di Berlino del 1878 ridimensionò le mire russe, impedendo allo zar di realizzare il suo disegno. Il tanto agognato sbocco venne poi trovato nel 1971 quando l’Urss ottenne dal presidente siriano Hafez al Assad la concessione sul porto di Tartus, dove poter stabilire una base militare tutt’ora in suo possesso.
Cosa c’entra tutto questo con la Libia? Semplice, è il tassello mancante di tutte e tre le direttrici russe. Da un punto di vista economico, Putin non ha certo bisogno del gas e del petrolio dalla Libia, ma non disdegna di vendere know-how e tecnologie ai tanti impianti dell’est libico, ricco di petrolio. Inoltre Haftar ha bisogno di armi per proseguire la sua guerra sia contro gli islamisti e le milizie di Misurata sia contro il Governo di unità nazionale di Fayez al Serraj. La Russia ha tutto l’interesse a fornirgliele.
In termini di proiezione mediterranea, poi, Haftar, baluardo del laicismo, è il complemento ideale all’asse con al Sisi e, forzando un po’ la mano, anche con Damasco.
Infine la questione dello sbocco sul mare. La Russia, intervenendo militarmente nel conflitto siriano accanto ad Assad, si è assicurata, per lo meno, il mantenimento del porto di Tartus, ora lo sappiamo bene, vitale sbocco sul mare. Perché non approfittare del generale di Tobruk per ricavarsi un altro “porto sicuro” nella Cirenaica?
Che Putin su Haftar abbia più o meno ragione potrà dircelo soltanto il tempo. Fino a qui non possiamo però negare che la spregiudicatezza e la chiarezza di idee del Cremlino, unite a una certa dose di aggressiva realpolitk, abbia pagato.