Donald Trump ha annunciato qualche giorno fa l’intenzione degli Stati Uniti di uscire dal trattato Inf, che vieta di schierare in Europa missili balistici terrestri a medio raggio (500-5.500 chilometri di gittata) stipulato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov. Vladimir Putin ha immediatamente risposto minacciando i Paesi europei che ospiteranno missili americani. Ieri, intanto, in Norvegia ha preso il via, e le manovre dureranno fino al 7 novembre, la più imponente esercitazione Nato dalla fine della Guerra fredda, dove saranno impegnati 50mila militari, 10mila mezzi terrestri e oltre 300 tra aerei e navi da guerra. In Europa sta tornando la Guerra fredda, la contrapposizione tra i due blocchi? “Il rischio c’è, ma quanto esso sia così concreto è difficile dirlo – risponde Raul Caruso, ricercatore presso l’Università Cattolica di Milano e autore di libri sui costi delle guerre e sulle spese militari –, tutto dipende dalla tenuta dell’Unione”.
Ci spieghi.
Paradossalmente l’Europa si trova in una situazione più favorevole, perché l’uscita di fatto della Turchia dalla Nato e l’uscita di fatto, seppur non ancora concretizzata, del Regno Unito dalla Ue rendono più omogeneo il blocco continentale dell’Europa e creano una migliore sovrapposizione tra la Nato e una politica comune di difesa.
Con quali effetti?
Se si riuscisse davvero a portare a casa una politica di difesa comune, il tema della Guerra fredda potrebbe sì rientrare, ma in maniera differente rispetto al passato.
Perché?
Ammesso che si torni a un confronto con la Russia, potremmo avere un soggetto, l’Unione europea, che si coalizza in maniera coerente, cioè non facendo più riferimento all’ombrello degli Stati Uniti. Viceversa, l’Unione si frazionerebbe e a quel punto, con un’Europa divisa, potremmo avere anche uno scenario peggiore rispetto all’ipotesi di un ritorno alla Guerra fredda.
I Paesi dell’Est Europa rischiano di ritrovarsi in situazioni già vissute ai tempi della Cortina di ferro?
Non parlerei, in generale, di Paesi dell’Est, farei delle distinzioni. La Polonia, per esempio, per la sue vicende storiche, è oggi un caso a sé, è un Paese falco, disposto anche ad azioni muscolari con la Russia. Anche la Repubblica Ceca è un caso a parte, perché, ormai integrata nell’orbita della Germania, ha una posizione più morbida. Ungheria e Slovacchia, invece, sono oggi Paesi indecisi: lì i frutti dell’integrazione Ue sono stati percepiti di meno e avvertono il pericolo di poter tornare indietro.
Torniamo alla decisione di Trump di voler abbandonare il Trattato Inf sui missili nucleari di medio raggio. Che cosa lo ha spinto in questa direzione?
Trump ha fatto questo annuncio in base a due considerazioni. La prima, esplicitamente affermata nel suo discorso sullo stato dell’Unione a inizio 2018, è legata al fatto che nella sua dottrina di politica estera è necessario possedere una soverchiante superiorità militare nei confronti di chiunque altro, convinzione che per una frangia del Partito repubblicano, oggi prevalente, è vissuta come la chiave di volta di una politica estera unilaterale.
La seconda considerazione?
Negli ultimi anni la Russia di Putin ha operato diversi tipi di provocazione, con sommergibili, navi da guerra e aerei militari che hanno sconfinato, senza dimenticare che Putin stesso aveva annunciato la costruzione di nuovi missili e una politica di riarmo russo che, almeno da un decennio, non si è mai fermato. Tant’è vero che la Nato già a fine 2014 aveva rimodulato la propria politica di riarmo degli alleati proprio facendo riferimento al pericolo russo.
Secondo lei, rivedremo gli euromissili?
Personalmente penso di no, perché ritengo che non siano sostenibili dal punto di vista dell’opinione pubblica in Europa, già sottoposta a scossoni significativi. Aggiungere altra legna da ardere in merito a impegni dei singoli Paesi è un rischio che nessun governo vuole correre. Gli euromissili potrebbero essere dirompenti, tenendo presente che abbiamo già problemi di tenuta della stessa Nato. Basti pensare alla Turchia, che per certi aspetti quasi non fa più parte della Nato. E anche l’Italia, con queste aperture alla Russia esplicitate in maniera forse un po’ precipitosa, ha fatto storcere un po’ il naso a molti alleati tradizionali.
Che cosa succederà ora dopo le dichiarazioni di Trump e la risposta di Putin, che ha già minacciato i Paesi che ospiteranno i missili americani?
Il vero fronte di questa nuova dotazione missilistica non sarà tanto l’Europa, ma l’Asia, come dimostrano l’enfasi posta sulla questione delle due Coree, sul riarmo del Giappone e sulle crisi paventate nel Mar Cinese meridionale. E soprattutto bisogna capire cosa farà la Cina.
In che senso?
In questo mondo, che sembra tripolare, abbiamo delle alleanze fluide: gli Usa considerano Cina e Russia degli avversari militari, ma non è detto che questi due Paesi siano disposti ad allearsi contro gli Stati Uniti.
Il mondo, come dice Putin, diventerà più pericoloso?
Putin e la sua constituency vogliono un mondo più pericoloso. Putin si trova nella condizione tipica del regime declinante, per cui ha bisogno di conflitti per nascondere i disastri economici che ha prodotto all’interno. Ha bisogno di un nemico esterno, di dare prove muscolari, una strategia che persegue fin dai tempi della Cecenia e che lo ha spinto anche a intervenire in Siria. L’unico settore manifatturiero che oggi esporta dalla Russia è l’industria delle armi, tutto il resto non ha più alcun peso sullo scenario economico globale, tanto che l’industria russa è oggi a livelli peggiori di quando c’era l’Unione Sovietica. Eccetto, appunto, l’industria militare, florida e capace di esportare. Putin ha bisogno di guerre, di nemici per rafforzare questa industria, per nascondere la povertà interna e paradossalmente per poter impiegare giovani che altrimenti rimarrebbero disoccupati. È una concezione ancora novecentesca, tipica dei totalitarismi.
Intanto in Norvegia è iniziata un’esercitazione Nato imponente. La regione dell’Artico sarà un nuovo teatro di tensioni?
Molti degli sconfinamenti russi di cui parlavo all’inizio riguardavano proprio la regione artica. E anche i cinesi avevano più volte manifestato il loro interesse alle risorse dell’Artico: basti pensare agli aiuti messi in campo da Pechino a favore dell’Islanda quando il Paese andò in default con la crisi del 2008. L’Artico già da una decina d’anni è una regione strategica. Anche perché, con il cambiamento climatico, rotte che prima erano impensabili potrebbero non esserlo più e diventare molto più strategiche. Il tema delle risorse è meno dirompente rispetto al passato, oggi è molto più decisivo quello del controllo delle rotte.
Con la decisione assunta da Trump riprenderà, se mai si era fermata, la corsa agli armamenti nucleari di medio raggio?
Sì, purtroppo riprenderà. Quando si hanno segnali evidenti da parte del leader della più potente alleanza militare, ciò suscita inevitabilmente delle reazioni. In parole più semplici, se lo fa lui, lo faccio anch’io. E il riarmo nucleare ci sarà non solo tra le superpotenze. La mia preoccupazione è che anche medie potenze possano decidere di armarsi dopo anni in cui questo tipo di decisione era stata messa da parte. Gli arsenali nucleari per un certo periodo sono rimasti abbastanza stabili, ora altri Paesi, e non penso agli Stati canaglia, potrebbero pensarci.
A quali Paesi pensa?
Per esempio, all’Arabia Saudita, un regime che ha dimostrato di avere poca attenzione ai diritti umani, ma ha le risorse e i legami politici giusti per poterlo fare, tenendo conto che è già tra i primi cinque spenditori al mondo per gli armamenti. Mi preoccupano anche l’Indonesia e le Filippine, visto che India e Pakistan hanno già l’atomica. E mi preoccupa il Brasile, soprattutto se dovessero confermarsi le previsioni di una guida affidata a una formazione di destra estrema, un Paese che ha la capacità economica per dotarsi di armi nucleari. Speriamo che non sia così, ma la guardia non va abbassata.
(Marco Biscella)