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Home » Politica » Elezioni » Elezioni Comunali » Ex Ilva di Taranto: cos’è e quale peso sulle Elezioni Comunali 2025/ Il futuro dell’acciaieria la vera sfida

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Ex Ilva di Taranto: cos’è e quale peso sulle Elezioni Comunali 2025/ Il futuro dell’acciaieria la vera sfida

Silvana Palazzo
Pubblicato 25 Maggio 2025
Ex Ilva di Taranto

L'ex Ilva di Taranto (Ansa)

Cos'è ex Ilva di Taranto e quale peso ha sulle Elezioni Comunali 2025? Futuro dell'acciaieria è la vera sfida dei candidati sindaco, la storia della crisi

IL PESO DELL’EX ILVA DI TARANTO SULLE ELEZIONI COMUNALI 2025

Taranto è tra le città coinvolte nelle elezioni comunali 2025, con un fantasma che incombe: l’ex Ilva. Durante la campagna elettorale, infatti, i candidati sindaco non hanno quasi mai affrontato il caso dell’azienda siderurgica, se non quando sono stati interpellati direttamente, sfuggendo però con dichiarazioni già sentite. Nessuno si è voluto sbilanciare. Del resto, il M5S puntò sulla chiusura dell’ex Ilva, ma alle parole non seguirono i fatti: un errore che i politici ora si guardano bene dal ripetere.


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Per Piero Bitetti del centrosinistra, “la salute non è negoziabile“, ma vuole evitare lo scontro istituzionale. Luca Lazzàro, sostenuto da FdI, Forza Italia, PLI e Noi Moderati, ha parlato di decarbonizzazione e chiusura delle fonti inquinanti, come Annagrazia Angolano del M5S. Mario Cito, della Lega d’Azione Meridionale–AT6, si è sbilanciato parlando di chiusura dell’Ilva, ma ritiene che sia una responsabilità che devono prendersi Regione Puglia e Parlamento. Mirko Di Bello, della coalizione civica “Adesso”, va oltre e chiede di pensare alle alternative, come il turismo, poiché per lui la chiusura della fabbrica è inevitabile. Francesco Tacente, appoggiato da una coalizione di liste civiche e partiti come UDC, PSI e Prima Taranto, vuole destinare i grandi finanziamenti in arrivo all’ambientalizzazione.


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EX ILVA DI TARANTO, QUALE FUTURO?

La grave crisi economica e sociale in cui versa la città pugliese si intreccia inevitabilmente con il caso dell’ex Ilva di Taranto. La situazione è a dir poco drammatica per diversi motivi: c’è il caso dell’incendio all’altoforno 1 di due settimane fa (ora sotto sequestro), con conseguente dimezzamento della produzione, lo sciopero degli operai degli ultimi giorni, e la richiesta di cassa integrazione che pende su quasi 4.000 lavoratori (numero che potrebbe aumentare, secondo la ministra del Lavoro Marina Calderone). A rischio non è solo il processo di riconversione ambientale, ma lo stesso futuro dell’ex Ilva, che il governo sta cercando di salvare.


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La trattativa con gli azeri di Baku Steel è in corso, ma per i sindacati è complessa; anche per questo, la Fiom-Cgil auspica la nazionalizzazione. Le sigle dei metalmeccanici attendono il nuovo incontro col governo previsto per la prossima settimana, nella speranza che arrivino risposte. Nel frattempo, la città sta per scegliere il nuovo sindaco, che avrà il compito di prendere in mano questo dossier scottante.

LE TAPPE DELLA STORIA DELLA CRISI DELL’EX ILVA DI TARANTO

Quella dell’ex Ilva di Taranto è la storia della più grande acciaieria italiana: una fabbrica strategica che ha dato lavoro a decine di migliaia di persone, sostenuto la manifattura italiana e avuto un ruolo nella crescita industriale del Paese. Ma è anche la storia di un dualismo tra tutela dell’ambiente e della salute, e salvaguardia dei posti di lavoro.

Nata come Italsider nel 1960, divenne Ilva con l’acquisizione da parte del gruppo Riva. L’obiettivo era rilanciare l’azienda, ma emersero i primi problemi di inquinamento collegati all’area industriale e i sospetti per le morti per tumore registrate nella zona. Nel 2012 ci fu il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali, nell’ambito dell’inchiesta per disastro ambientale, che portò a misure cautelari nei confronti dei vertici aziendali. Fu l’inizio del declino.

Il governo Monti dovette emanare un decreto per autorizzare la prosecuzione della produzione, al fine di tutelare i posti di lavoro. Agli arresti seguirono i commissariamenti e l’amministrazione straordinaria. Nel 2017 l’impianto venne affidato al gigante ArcelorMittal, che però abbandonò progressivamente il progetto, anche per via dello scontro con il primo governo Conte, che tolse lo scudo penale, ossia la protezione legale durante la bonifica ambientale. Tale protezione avrebbe messo al riparo la nuova dirigenza da responsabilità legate a eventi precedenti il suo insediamento.

Nel 2021 nacque Acciaierie d’Italia, con il 62% di ArcelorMittal e la parte restante in mano a Invitalia. Tra investimenti mancati e impianti fermi, è proseguita la lenta agonia industriale dell’ex Ilva, aggravata anche dal “balletto politico”, con governi che hanno cambiato idea più volte e politici incapaci di prendere decisioni strategiche e stabili.

Se a ciò si aggiungono pressioni locali e sindacali, disinteresse e disimpegno degli attori privati (a partire da Mittal), contraddizioni ambientali e blocchi giudiziari, il disastro è servito. Il governo ora sta cercando un nuovo partner industriale, mentre i sindacati chiedono la nazionalizzazione e il rilancio. Ma servono competenze e capitali. Nel frattempo, gli altiforni si spengono, gli operai finiscono in cassa integrazione e l’Italia rischia di restare senza acciaio.

Tags: Taranto


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