Studio: “I farmaci antitumorali sono inutili nel 41% dei casi”
Un recente studio pubblicato sulla rivista British Medical Journal ha dimostrato che una larga fetta di dei farmaci oncologici, ovvero quelli antitumorali, sono in realtà inutili, pur venendo ampiamente utilizzati, con costi talvolta decisamente eccessivi. Il problema principale, secondo lo studio, è che questa tipologia di farmaci viene quasi sempre approvata con percorsi accelerati, senza reali prove a sostegno dei presunti benefici al fine di garantire un accesso tempestivo ai trattamenti ai pazienti che no hanno bisogno.
Lo studio, condotto dipartimento di farmacoepidemiologia e farmacologia clinica dell’Università di Utrecht, ha preso in esame 458 differenti farmaci antitumorali, pari all’intera gamma approvata dall’Agenzia europea per i medicinali negli anni tra il 1995 e il 2020. Complessivamente, il numero di farmaci oncologici approvati è cresciuto negli anni, passando dal 30% nel 2010 al 50% nel 2020, con una spesa globale che aumenterà dagli attuali 164 miliardi di dollari (2020) ad oltre 269 miliardi nel 2025. Eppure, secondo l’indagine che mirava a comprendere i “benefici clinici” dei farmaci antitumorali, il 41% di quelli in uso si sono rivelati inutili (“beneficio aggiunto negativo o non quantificabile”). Similmente, il 23% dei farmaci analizzati è stato classificato come “beneficio aggiunto minore”, mentre solo il 36% apporterebbe degli effettivi benefici. Lo studio precisa inoltre che questi farmaci “a riescono anche a recuperare i costi di ricerca e sviluppo in un periodo relativamente breve” che, in altre parole, significa che hanno costi eccessivamente alti.
Mariano Bizzarri: “La lotta contro il cancro deve cambiare registro”
Insomma, secondo lo studio olandese buona parte dei farmaci antitumorali sono inutili, nonostante per la loro produzione e vendita vendano investite “considerevoli risorse pubbliche e private“. Complessivamente, il tempo medio per rientrare dell’investimento dopo l’ingresso dei farmaci oncologici nel mercato è di 3 o 4 anni, mentre il 90% delle aziende recupera i costi entro un massimo di 8 anni.
Seppur non lo dica apertamente, lo studio sui farmaci antitumorali mira ad incentivare un qualche cambio di rotta su questo tipo di trattamenti, costosissimi ma, seppur promettenti, spesso inutili, lavorando soprattutto sulle dinamiche di approvazione. Il problema, tuttavia, potrebbe essere quello già ipotizzato nel 2018 dall’oncologo Mariano Bizzarri, ricercatore presso l’Università La Sapienza di Roma, che sottolineò che “l’oncologia è un’attività fruttuosa“. La suo opinione, d’altronde, non era diversa da quella presentata nello studio sui farmaci antitumorali, perché disse chiaramente che “la chemioterapia non è la soluzione” contro il cancro. “Non è sufficiente colpire ‘bersagli genetici/enzimatici'”, spiegò, “poiché non solo sono aspecifici, ma diventano irrilevanti una volta che il tumore devia verso ‘vie alternative’ di attivazione funzionale”. Il suo consiglio (inascoltato) era quello di “cambiare registro” nella lotta contro il cancro, perché di questo passo non si raggiungeranno mai risultati concreti.