“Il Governo Draghi segna un cambio di passo, non solo perché il presidente del Consiglio è una persona autorevole e prestigiosa, ma soprattutto perché quello che ha ottenuto la fiducia delle Camere è un autentico governo del Presidente della Repubblica, legittimato dalla fiducia del capo dello Stato” dice al Sussidiario Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo, esperto di regionalismo, federalismo e autonomie.
Va bene, ma non era meno importante la fiducia delle Camere, obiettiamo. “Quella che manifestano le Camere è una fiducia dovuta, senza la quale l’intero sistema politico rischia di implodere, mettendo in pericolo la democrazia”.
Abbiamo chiesto a Mangiameli di affrontare quello che si è rivelato uno dei maggiori problemi in tempo di pandemia, il rapporto del governo centrale con le Regioni. Almeno sotto il governo Conte.
Prima, professore, una valutazione politica della nuova compagine di governo.
La novità peculiare è che risulta composta da tutte le forze politiche con l’eccezione di FdI, che comunque si è dichiarato pronto a sostenere i provvedimenti reputati utili per il Paese. Questo mette fuori dall’agone politico la lotta alla pandemia e il Piano nazionale sulla ripresa e la resilienza.
Quali prospettive si aprono?
Se i partiti politici prendono sul serio questa circostanza e acquistano lo stesso atteggiamento pragmatico che contraddistingue il capo del governo, riconoscendosi reciprocamente, avranno la possibilità di sopravvivere anche alle future fasi della politica, quando – si spera – la pandemia sarà finita. L’intelligenza di Draghi è stata quella di non avere puntato ad affermare il suo governo come “tecnico”, ma di aver fatto l’elogio della “politica”, di una politica diversa. Ciò potrebbe consentire di avere per il futuro un nuovo sistema dei partiti.
Draghi ha detto che il “principale dovere” è quello di “combattere con ogni mezzo la pandemia”. Nel rapporto con le Regioni il governo Conte 2 è stato incerto e confusionario. Quali sono gli errori da non ripetere?
Le incertezze nella seconda ondata sono state essenzialmente in tre settori: scuola, trasporto pubblico locale e sanità, che peraltro sono interconnessi. Su questi tre ambiti il governo centrale ha manifestato spesso la volontà di decidere qualcosa, ma poi non è stato in grado di assumere decisioni, o, quanto meno, decisioni efficaci.
Prendiamo la scuola.
La competenza è detenuta dallo Stato e non dalle Regioni. La copertura delle cattedre è stata un disastro; la digitalizzazione delle scuole e l’organizzazione della Dad altrettanto; per ciò che riguarda la ristrutturazione degli edifici scolastici e degli arredi, in relazione alla presenza del Covid, va ricordato che le competenze sino al 2015 erano delle Province per gli istituti superiori e dei Comuni per le scuole elementari e medie inferiori.
Perché dice questo?
Perché con la legge Delrio lo Stato ha gettato nel caos l’organizzazione scolastica, cancellando i compiti delle Province, dando alle Regioni funzioni programmatorie e ai Comuni funzioni esecutive, senza alcun coordinamento e in mancanza di un piano finanziario.
Il trasporto pubblico locale?
È formalmente delle Regioni, ma il finanziamento è rimesso allo Stato che opera con un fondo nazionale che condiziona le scelte regionali, comprese le tratte e le frequenze. La pandemia avrebbe richiesto, quanto meno, un ripensamento delle frequenze, per effettuare il distanziamento nel trasporto, e questo avrebbe avuto un considerevole costo, ma il governo ha stanziato solo cento milioni per il trasporto che non sono arrivati in tempo.
Per quanto riguarda la sanità?
La sanità è una competenza concorrente, cioè condivisa tra Stato e Regioni; finanziata dallo Stato, le Regioni possono aggiungere risorse proprie. È mancato il piano pandemico e il governo ha dato per scontato che a inizio luglio il problema sanitario era risolto…
Come giudica l’operato delle Regioni?
La maggior parte si sono mosse con le proprie risorse, richiamando il personale sanitario in quiescenza, aumentando i reparti Covid e i posti letto delle terapie intensive, ma questo non ha impedito certi picchi di contagio e di morti. Ciò nonostante nella seconda ondata i posti letto, normali e di terapia intensiva, pur con una certa tensione hanno retto.
Non è chiaro se per meglio contrastare l’epidemia occorra aumentare le competenze delle Regioni oppure ridurle. Lei cosa dice?
Non credo che le Regioni abbiano bisogno di maggiori competenze; hanno bisogno di avere certezze sull’esercizio delle loro competenze e sulla collaborazione con lo Stato e che il governo non faccia un uso strumentale della Conferenza Stato-Regioni. Inoltre, hanno bisogno che lo Stato faccia lo Stato.
Cosa significa?
Ad esempio che lo Stato deve occuparsi meglio degli approvvigionamenti dei vaccini, negoziando anche – se fosse possibile – la loro produzione in Italia, non solo acquistandoli dalle case farmaceutiche straniere, e anche finanziando la ricerca.
Con il Recovery entriamo in una stagione di riforme. Conte aveva dichiarato il proposito di rimettere mano al Titolo V per “coordinare più efficacemente il rapporto tra i diversi livelli di governo”. Come commenta?
Ogni governo che arriva accusa le Regioni di non essere all’altezza dei compiti, facendo finta di non sapere che il federalismo fiscale è bloccato dal 2011, e poi dichiara che bisogna mettere mano al riparto costituzionale delle competenze. Si è creato da tempo uno stato di tensione permanente, in cui la spinta centralizzatrice dei governi nazionali serve a coprire le lacune, i ritardi e le inefficienze dell’azione di governo.
Dove si deve intervenire?
Attualmente la Costituzione e la legislazione prevedono meccanismi più che sufficienti per coordinare i diversi livelli di governo, compreso il potere sostitutivo, previsto dall’art. 120, comma 2, Cost. È chiaro poi che tutto è perfettibile, ma adesso un intervento costituzionale sarebbe una sciagura. Bisogna prima spegnere l’incendio e valutare i danni, per decidere come ricostruire la casa.
Come giudica l’ipotesi, nella scarsità attuale di vaccini, che una o più Regioni assumano autonomamente iniziative di approvvigionamento diretto?
Ovviamente sarebbe meglio un’azione coordinata. Ma le Regioni italiane, così come gli Stati membri dell’Ue, non sono tutte uguali. Se viene meno il coordinamento del centro e se il governo non provvede in modo adeguato all’approvvigionamento, non si possono criticare le Regioni che agiscono efficacemente, reagendo all’assenza del governo.
Che cosa dovrebbe fare il nuovo governo per mettere le Regioni in condizioni di rispondere efficacemente alla pandemia e di sveltire la vaccinazione?
L’Italia è ai primi posti in Europa per vaccinati questo è merito delle strutture sanitarie. Se lo Stato avesse provveduto ad acquistare meglio o a produrre il vaccino, certamente saremmo ancora più avanti. Mi pare evidente che servono i vaccini, e non commissari o riforme costituzionali delle competenze.
Ha visto i lockdown locali decisi da Regione Lombardia? È la strada giusta?
Sì. Con molta probabilità il livello più adeguato di misurazione della pandemia e di organizzazione della risposta al Covid sarebbe stato quello provinciale, anziché quello regionale. È così in Francia, dove si segue il livello dipartimentale, e in Germania, dove i presidenti dei Länder, che hanno i poteri sanitari, si avvalgono dei Kreise (province).
Dove sta il problema?
Unica in Europa, l’Italia ha deciso che il governo di area vasta, quello provinciale, doveva essere disarticolato. Nonostante il fallimento della riforma Renzi e della legge Delrio e le raccomandazioni assai critiche del Consiglio d’Europa, di cui abbiamo violato la Carta delle autonomie che avevamo sottoscritto senza riserve, non si è ancora avuto un serio ripensamento sul punto. Forse, se avessimo avuto ancora le Province, la pandemia si poteva gestire in modo più appropriato, soprattutto i lockdown.
Regioni e rafforzamento della sanità territoriale: cosa può dirci?
Posso dire che è da tempo un limite grande della sanità italiana che, per l’indirizzo impresso dallo Stato – da ultimo la legge Lorenzin – è tutta organizzata sull’ospedale e sul pronto soccorso, mentre dove esiste come in Germania una forte sanità territoriale, gli ospedali svolgono il loro compito di cura in modo corretto e i conti complessivi della sanità sono anche migliori.
Che ruolo possono avere le Regioni nell’attuazione delle riforme previste dal Recovery Plan?
Per alcune riforme come quella della giustizia, della semplificazione, del codice degli appalti e dell’amministrazione le Regioni non entrano in discussione, perché quando si parla della riforma dell’amministrazione, si fa normalmente riferimento a quella statale.
E per il resto?
Sul resto le Regioni dovrebbero essere protagoniste quanto meno alla pari dello Stato, per la semplice ragione che Green New Deal, digitalizzazione, infrastrutture e politiche pubbliche, compresa la sanità, ricadono tutte sui territori e toccano direttamente le competenze delle Regioni.
Un suggerimento al governo Draghi nel rapporto Stato-Regioni: le cose da fare subito.
Mi limito a due. La prima: mettere le Regioni in condizione di procedere speditamente con la vaccinazione, compresi i vaccini di seconda generazione che da settembre in poi devono essere iniettati a tutta la popolazione per garantire la ripresa.
E la seconda?
Scrivere nella lingua dell’Unione Europea il Piano nazionale di ripresa e resilienza, tenendo conto delle indicazioni e delle osservazioni che provengono dai territori. Gli addetti ai lavori sanno cosa questo significa, in termini di progettualità, tempistica e valutazione dei costi. Peccato che il precedente governo lo abbia ignorato.
(Federico Ferraù)
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