FINANZA/ Così il coronavirus sta distruggendo i trasporti via mare

- Jack Cambiaso

Non era un momento facile, complice la green economy, per il settore dei trasporti marittimi. Il coronavirus rischia di aggravare le cose

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Prima di raccontarvi cosa succede per mare in tempi di coronavirus, una premessa è d’obbligo. Solitamente le dinamiche del mercato marittimo funzionano in modo molto simile a quelle delle borse. Infatti, si tende sempre a guardare solo se il saldo è positivo o negativo, mentre in realtà in parallelo c’è sempre chi sale e chi scende, chi guadagna e chi perde, senza dimenticarci che non sempre i fondamentali sottostanti a questo mercato sono necessariamente legati all’andamento dell’economia in generale.

Recentemente vi ho spiegato le reali dinamiche nascoste dietro un certo Baltic Dry Index (BDI), un mercato legato principalmente al trasporto di carbone e minerali ferrosi, due pietanze di cui la Cina ha un insaziabile appetito da ormai quasi 20 anni. Ma cosa ci racconta questo indice? Chi non è del mestiere potrebbe pensare che misuri il volume di merci trasportate. Sbagliato! Quello che misura è quanto incassano le navi per trasportare quelle merci, quello che comunemente nel settore chiamiamo “nolo”, ovvero il costo di noleggio nave giornaliero. In passato, infatti, è capitato svariate volte che a fronte di una crescita della domanda di merci trasportate corrispondesse un mercato dei noli depresso. La ragione? Semplice, un eccesso di offerta, in poche parole troppe navi. Ci sono altri fattori che possono influenzare negativamente i mercati marittimi, per esempio nuove normative come quelle introdotte a gennaio di quest’anno in nome della Green Economy. Anche tensioni geopolitiche e disastri naturali mettono a rischio la tenuta di questi mercati.

Tornando al coronavirus, questo è destinato a prolungare la sofferenza attuale del BDI, ma non è stato la causa principale della sua depressione, come abbiamo già approfondito in precedenza. Tuttavia è giusto ricordare che per mare non si muovono solo materie prime alla rinfusa secche, ma altre non certo di minor importanza come quelle liquide e gassose, come pure prodotti semilavorati e finiti nei containers e passeggeri. La somma di questi traffici rappresenta l’insieme dei trasporti marittimi a cui si collega l’ulteriore indotto dei porti e dei cantieri navali. Tutto questo rappresenta il mondo dello Shipping, un mondo che per molti aspetti può dire tanto sull’impatto di certi eventi nell’economia reale.

Vi potrebbe strappare un sorriso la scoperta che mentre il carico secco affondava sotto i colpi della guerra alle terribili emissioni di CO2, il mercato delle navi cisterna, ergo trasporto di petrolio e prodotti raffinati, volava a massimi che non si vedevano da più di un decennio. Eppure anche queste navi erano soggette alla nuova normativa in tema d’emissioni con relativi costi, quindi come spiegare la controtendenza? Semplice, la Green Economy è un business come un altro, solo travestita forse più da nobile intenzione. Infatti, la speculazione sul costo dei nuovi carburanti a basse emissioni ha finito per arricchire per primo proprio quell’indotto che l’ecologismo in stile Greta avrebbe messo alla sbarra dei colpevoli, l’industria degli idrocarburi. Oltre a questo il mercato delle cisterne ha beneficiato di sanzioni Usa conto alcuni player del segmento che avevano infranto le limitazioni di commercio con l’Iran. Ecco, come da preambolo, l’esempio che mentre qualcuno affondava altri festeggiavano.

Sfortunatamente nessuno aveva previsto l’arrivo del coronavirus, le dimensioni del suo impatto e le sue gravi conseguenze. Quindi ora abbiamo anche l’eccezione che conferma la regola della mia premessa, una rara situazione in cui ci sono solo perdenti, di certo per il mondo marittimo e probabilmente non limitati solo a questo. Infatti, chi ha a che fare con questo settore oggi sta testando con mano una situazione seriamente preoccupante, oserei dire compromessa ben di più di quella che il normale allarmismo mediatico riesce a trasmettere quotidianamente insinuando sospetti, teorie cospiratorie e citando varie cifre più o meno presunte.

I miei colleghi di lavoro in Cina non possono praticamente uscire di casa, uno dei due è ufficialmente in quarantena da giorni (fino al 21 di febbraio) perché era passato dalla provincia di Hubei la settimana scorsa. Deve fornire la temperatura corporea alle autorità due volte al giorno. Nella maggior parte degli edifici consegnano fazzoletti usa e getta da utilizzare per premere il tasto dell’ascensore. Vi sto descrivendo la situazione a Xiamen, nella provincia di Fujian, non quella di Hubei dove è scoppiata l’epidemia, ma in realtà vi è una situazione analoga praticamente ovunque in Cina!

L’industria pesante, i cantieri navali, hanno dichiarato forza maggiore e chiuso i battenti temporaneamente. Svariate navi che devono effettuare riparazioni sono ferme da settimane, mentre altrettante cercano disperatamente qualche carico da muovere in un mercato al limite della paralisi con l’aggravante che, seppur i porti cinesi non siano chiusi, andarci può significare non essere più ben accetti in svariati porti altrove.

Ho avuto modo di leggere scambi privati tra un addetto ai lavori europeo che si trova a Shanghai e un corrispondente italiano. L’uomo la descriveva come una città fantasma, strade vuote, negozi e ristoranti chiusi. Una cosa surreale visto che stiamo parlando di una città dove risiedono 25 milioni di persone! Anche li bisogna farsi misurare la temperatura sia per entrare che per lasciare gran parte degli edifici. Se pensate che la sola provincia di Hubei, dove è esploso il focolaio, in termini di numeri rappresenta il 3,6% della produzione cinese d’acciaio, l’8,8% di quella di motoveicoli, il 5% di passeggeri, il 4,4% dei ricavi dell’industria ed il 4,3% del Pil cinese, potete immaginare il contraccolpo per la seconda economia del mondo e di conseguenza per l’intero pianeta.

Nello Shipping più che altrove si usa dire che quando la Cina starnutisce, il mondo intero si becca il raffreddore, ma nel caso del coronavirus forse il rischio concreto per l’economia globale è quello di buscarsi una grave polmonite, una di quelle che lascia profonde cicatrici nei polmoni per intenderci. Infatti, questa calamità non poteva scegliere un momento peggiore per fare il suo esordio sulla scena, un momento in cui tra avventurose iniziative ecologiche a base di investimenti improduttivi a leva unite a varie tensioni commerciali geopolitiche, la baracca scricchiolava già prima che iniziasse a soffiare il vento di tempesta.

Insomma, per il settore dei trasporti piove sul bagnato, questa nuova inaspettata emergenza rischia di complicare ulteriormente e non poco la situazione. I mercati finanziari festeggiano in perfetto stile New Normal, quella del motto “tanto peggio tanto meglio”. Si sa come funziona nel magico mondo della finanza ormai, se l’aridità dell’economia avanza, l’aspettativa mai disattesa dalle banche centrali è quella di un pronto soccorso fatto di tsunami di liquidità. Peccato che questa non vada più a irrigare i campi dell’economia reale già da un pezzo, serve solo a tenere in piedi debitori insolventi e gonfiare valutazioni di assets finanziari.

L’unica consolazione è che, almeno in teoria, questo tipo di emergenza è sempre temporaneo, ma basterebbe che durasse qualche settimana in più, come peraltro sembra tutt’altro che improbabile, per fare danni spaventosi, visto il già precario stato di salute di certi pazienti.

Non mi riferisco a quelli affetti da coronavirus, ma ad alcuni dati molto preoccupanti già da prima dell’epidemia, come certi crolli della produzione industriale registrati per la fine dell’anno dalle nostre parti. Infatti, le implicazioni sono serie sopratutto in Europa e da svariati punti di vista. Chi dirige le danze oltretutto sembra poco concentrato sui problemi reali e si presenta con credenziali pessime. Pensate, per esempio, alla questione migratoria, a come è stata affrontata in Europa e in Italia per poi metterla in prospettiva con il virus dell’ultima ora. Si limiteranno a fermare i voli diretti dalla Cina o prenderanno in considerazione anche i barconi di clandestini che arrivano senza nessun controllo?

Mi direte, ma che c’entra l’Africa, lì per ora infetti non ce ne sono. Signori avete idea del giro di affari cinese nel continente in questione e del limite dei mezzi di quella zona del mondo? Potrebbero accorgersi d’avere l’infezione molto in ritardo. Ma non solo: che dire della nuova Via della seta? Pure quella pare che attraversi tutta l’Asia con i suoi progetti e investimenti. Non male per un continente dove sperimentiamo la libera circolazione di persone, quella che porta solo benefici a tutti, Brexit docet. O più cinicamente vogliamo parlare dei preparativi per far fronte alle gravi conseguenze sull’economia di cui l’indotto dei trasporti marittimi ci sta silenziosamente mettendo in guardia? No, in Europa si parla solo di Green Economy e inutili manovre espansive della Bce, come se la produttività degli investimenti fosse diventata una materia da comitati new age.

Possiamo solo augurarci che il capitolo coronavirus venga archiviato molto rapidamente. Personalmente, speravo che fosse soltanto una maldestra messa in scena cinese per giustificare manovre monetarie ultraespansive, che senza una presunta emergenza avrebbero scatenato un altro tipo di panico, quello dei mercati finanziari. In fondo a guardare gli stock di acciaio accumulato in Cina prima del virus il sospetto viene eccome, visto che sono pieni a tappo.

Coincidenza o sapevano che sarebbe esplosa l’emergenza? Magari pilotandola pure e prendendosi la comoda colpa d’aver sottovalutato i rischi a dicembre. Visto il pericolo sarebbe doveroso non prendere sotto gamba l’emergenza, ma il mercantilismo che guida il nostro continente, fin troppo unito nella fattispecie, ne sarà capace? Considerando che qualche giorno fa l’agenzia sanitaria tedesca si prodigava nel diramare la puntualizzazione che ogni anno in Germania muoiono venticinquemila persone per la normale influenza ho qualche serio dubbio. Sembra che da quelle parti faccia molta più paura la statistica della produzione industriale che quella dell’epidemia. Forse dovrebbero dare un’occhiata attenta alla cartina cinese del coronavirus e rivedere certe posizioni.







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