Nella notte le forze israeliane hanno bloccato le imbarcazioni della Flotilla. Tutti gli italiani verranno trasferiti nel porto di Ashdod e rimpatriati
Il viaggio della Flotilla verso Gaza è arrivato al suo epilogo. Come prevedibile, le forze armate di Israele sono intervenute per interrompere l’accosto alle rive dei territori oggi controllati dallo Stato ebraico. Nel frattempo si è mobilitata quella parte di sinistra che fortemente ha voluto questo gesto simbolico, e il suo modo rivoluzionario, per continuare a sentirsi viva.
La scelta di presentare il corpo e il carico di merci sul palcoscenico della politica internazionale è stato un male quasi necessario, una vera e propria condizione di necessità per essere finalmente al centro del dibattito politico.
Nessuno dei membri degli equipaggi, né tantomeno dei loro supporter sulla terraferma, ha mai realmente voluto che i pacchi di pasta arrivassero a destinazione. L’obiettivo era rimettersi nel solco della storia della sinistra più massimalista e tentare di rilanciare politicamente sia il tema dell’indipendenza dei palestinesi come popolo, sia l’identità persa della sinistra europea.
Quanto sta accadendo a Gaza in questi ultimi mesi segna la fine definitiva del concetto di Occidente così come lo abbiamo praticato nei decenni addietro: quel mondo fatto di valori che partiva dagli Stati Uniti, transitava in Europa, atterrava in Israele e poi proseguiva verso l’altro capo del mondo, in Oceania. Una consolante cartina di luoghi politicamente simili in cui ci si poteva rispecchiare.
L’avvento della nuova situazione mondiale ha distrutto quell’immagine e la scelta di Israele di andare molto oltre la legittima difesa a Gaza ha spezzato un vincolo e le comuni visioni del mondo democratico occidentale, un mondo in cui coloro che erano di sinistra si parlavano ed avevano obiettivi comuni, confortati dall’idea di una missione storico-politica che era quella di garantire maggiore benessere ai ceti più deboli e contemporaneamente promuovere la pace.
L’invasione dell’Ucraina, la tragedia del 7 Ottobre ed infine la protratta occupazione israeliana di Gaza hanno messo nell’angolo i valori su cui l’Occidente si è fondato. Da quando Israele ha deciso di portare Gaza a quota zero, in quel preciso istante il concetto stesso di Occidente è definitivamente morto.
E così le sinistre si sono ritrovate smarrite e bisognose di nuova identità, con la necessità di tracciare un solco per terra e vedere chi sono i nemici e chi gli amici, senza avere più alcuna voglia di dialogo e di comprensione per le ragioni di chi è dall’altro lato di questa immaginaria linea.
E per renderla più forte e più marcata, c’era bisogno di mettere in crisi il sistema, di creare una contraddizione politica e sociale mostrando ciò che era evidente a tutti, ovvero l’intenzione di Israele di portare alla fine della storia l’esistenza di un possibile Stato palestinese.
Da quel momento in poi la sinistra ha iniziato a organizzare la propria ripresa di identità e coscienza secondo schemi antichi che hanno recuperato l’attivismo propagandistico per fare proseliti e inventarsi una missione.
I movimenti ispirati da questo pezzo di sinistra, le sigle sindacali che li stanno appoggiando, i manifestanti che scendono nelle piazze uniti non appena si è verificato l’inevitabile, ovvero l’intervento dell’esercito israeliano a bordo delle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, stanno tutti combattendo un’altra battaglia, che è quella per la loro identità e per la loro affermazione come parte politica in un contesto in cui è difficile riconoscere ciò che divide gli uni e gli altri.

Oggi o sei con loro o contro di loro, o vuoi la caduta di Israele o sei quelli che vogliono asfaltare Gaza. In questo contesto è necessaria la contrapposizione, l’idealismo più radicalizzato, la nettezza delle posizioni che non possono tener conto di ragioni e sentimenti diversi, perché il viaggio della Flotilla verso Gaza in realtà è un viaggio alla ricerca della propria identità politica e culturale, un viaggio alla riscoperta di se stessi e dei propri valori, un tentativo di riappropriarsi di storie antiche tentando di renderle moderne.
La mobilitazione è solo all’inizio e doveva essere un secondo tempo di una partita che è iniziata con il referendum su lavoro e cittadinanza e che avrebbe dovuto concludersi con le urne piene di consensi a chi sta ricostruendo, secondo i loro leader, l’identità persa della sinistra.
Può essere una rinascita che riparte da quella battaglia, oppure trasformarsi nel canto del cigno di un movimentismo radicalizzato e ideologizzato che non ammette repliche e discussioni, che avverte il bisogno di dimostrare la propria esistenza in vita, che ha la necessità di contrapporsi e rendersi protagonista e antagonista del sistema nel quale non si riconosce più.
L’Occidente che è caduto li ha privati del loro ambiente di riferimento, della capacità di rendersi protagonisti nelle dinamiche sociali ed economiche.
Il rifiuto di un’omologazione e di una riflessione più profonda si legge nella contraddizione sulle posizioni meno che pacifiste che quegli stessi protagonisti hanno quando si parla di Putin e dell’invasione dell’Ucraina. Perché non è un pacifismo integralista e totalitario quello che una parte della sinistra oggi cerca, non è la strada di una visione razionale coerente per arrivare ad affrontare i problemi di nuovi scenari internazionali.
A questa sinistra serve un nemico per rinascere, un avversario da additare, un popolo da mobilitare, un nemico di classe che si trova dall’altra parte dell’immaginaria linea solcata sempre più in profondità come la scia che nel Mar Mediterraneo ha lasciato la Flotilla verso Gaza.
È stato ed è un viaggio più simile ad un’Odissea politica che ad un percorso umanitario, un viaggio di ricerca del consenso perduto nelle società europee, un tentativo di recuperare un’identità attraverso la contrapposizione ad un’altra identità.
La tragedia di Gaza resterà come la fine della storia di un Occidente unico con identità condivisa. Che possa essere anche il momento in cui le sinistre ritroviamo la loro ragion d’essere nella società contemporanea, è tutto da vedere. Ma nessuno può privare quegli attori dell’idea che questa sia la loro chance e che se la giocheranno fino in fondo.
È una battaglia che va molto oltre Gaza, la fame e i morti di entrambe le parti. È una battaglia per l’identità nuova. Che sia giusta e che abbia un consenso è tutto da dimostrare. Per ora è l’atto politico organizzato più impegnativo e più forte degli ultimi decenni ed è probabilmente la battaglia finale che segnerà o la nascita di qualcosa di nuovo, o la morte definitiva della sinistra storica. Assieme al concetto stesso di Occidente, che giace sepolto sotto le macerie di quella che un tempo era Gaza.
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