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Home » Cultura » FOTOGRAFIA/ Henri Cartier-Bresson “occhio del secolo”, l’Italia vista con realismo e profezia

  • Cultura

FOTOGRAFIA/ Henri Cartier-Bresson “occhio del secolo”, l’Italia vista con realismo e profezia

Carlo Dignola
Pubblicato 1 Marzo 2025
Siena, 1953 - © Fondation Henri Cartier-Bresson - Magnum Photos

Siena, 1953 - © Fondation Henri Cartier-Bresson - Magnum Photos

A Torino la mostra “Henri Cartier-Bresson e l’Italia” presenta in 160 scatti il nostro paese visto dall’“occhio del secolo”, il maggior fotografo del 900

“Oggi si viaggia non per vedere ma per fotografare. Si è certi di avere viaggiato, di avere goduto la propria vacanza solo quando se ne possiedono le immagini. In questo mondo dove l’uomo vive tra le immagini, spesso confondendole con la realtà, dove pochi parlano e decidono e agiscono e molti ascoltano e subiscono, in questo mondo dove gli uomini non riescono più a comunicare fra di loro si afferma la necessità e la funzione degli intermediari, i maghi del nostro secolo, fra cui i grandi fotografi. Fra di loro uno dei più grandi: Henri Cartier-Bresson”.


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Sono le parole di un film eccezionale, datato 1964, riscoperto negli archivi Rai l’anno scorso, che viene mandato in loop all’interno della mostra torinese Henri Cartier-Bresson e l’Italia, curata da Clément Chéroux e Walter Guadagnini, aperta fino al 2 giugno presso Camera – Centro italiano per la fotografia, un ampio e affascinante percorso in 160 scatti dal quale emerge uno spaccato del nostro Paese firmato dal maestro della fotografia francese, definito “l’occhio del secolo” (quello passato).


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Il filmato (visibile anche su Raiplay/Teche) dura quasi un’ora, è firmato da Nelo Risi, fratello del più famoso regista Dino, e i testi erano di Giorgio Bocca: in esso “HCB” appare, curiosamente, come “il fotografo che non vuole essere fotografato”. Con il passare dei minuti, il documentario si rivela come “il ritratto di un uomo in ombra, che vuole restare in ombra per necessità”. E che, forse anche per questo motivo, è rimasto per noi in gran parte ancora sconosciuto, o male interpretato.

“Il lavoro di cui mi occupo mi costringe a conservare l’anonimato” cerca di giustificarsi HCB, chiarendo al tempo stesso il suo modo molto peculiare di intendere la fotografia: “È un mestiere che si esercita a bruciapelo, prendendo la gente alla sprovvista. E nel quale non è consentito mettersi in mostra”.


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Magro ed elegante, in giacca e cravatta, Cartier-Bresson non guarda mai in macchina, si mette di spalle, si copre gli occhi con la mano, compare spesso nelle inquadrature come un’ombra. Dialoga con lui, a fatica, giacché lui continua a sottrarsi, l’amico Romeo Martinez, messicano, direttore della rivista Camera, allora considerato uno dei maggiori critici viventi.

Il film ha più di sessant’anni ma, nei suoi contenuti, sembra registrato ieri: “Oggi noi abbiamo, grazie a dei miglioramenti tecnici, degli apparecchi automatici dal risultato istantaneo, cosa che a me non piace affatto, i quali potrebbero essere usati da una scimmia” dice Cartier-Bresson, prefigurando di fatto l’era dei miliardi di immagini scattate oggi ogni giorno, anche a casaccio, con i cellulari.

Fotografando senza neppure guardare nel mirino (come del resto, nota HCB, fa la gran parte dei turisti in giro per le nostre strade) la fotografia sta diventando un’“arte” in cui persino una scimmia sarebbe perfettamente in grado di giocare un ruolo da protagonista, realizzando immagini grazie alle quali “potrebbe entrare nella nostra associazione”, ovvero la mitica agenzia Magnum Photo fondata da lui e Robert Capa nel 1947.

Cartier-Bresson, insomma, aveva già capito dove si sarebbe andati a parare. E per questo, come “autore”, preferisce scomparire. Lui che aveva in mente, e in cuore, tutt’altro tipo di fotografia, per la quale sono necessari “rigore, un certo controllo, una disciplina, dello spirito, una cultura, infine intuizione e sensibilità. E ci vuole anche un certo rispetto per l’apparecchio e i suoi limiti. Fuori di questo, la fotografia non mi interessa minimamente”.

La bella mostra di Torino espone appunto il risultato di questa impostazione rigorosa e “umanistica”, le sue scorribande lungo il nostro Paese tra gli anni 50 e 70, spostandosi da Roma a Napoli, da Venezia a Matera, ma uscendo anche spesso dal “Gran Tour” più tradizionale per il turismo d’élite e spostandosi in luoghi poco conosciuti da noi stessi italiani, come ad esempio Brienza e Pietragalla.

Il fotografo si muove con circospezione e naturalezza in mezzo alla vita quotidiana di un’Italia ancora “con il cappello”, in preda – nel volgere di quel paio di decenni – a un’incredibile trasformazione materiale e sociale; ma non rinuncia ai ritratti degli uomini-icona del suo tempo, tra i quali riconosciamo Sciascia, Rossellini e de Chirico, Pier Luigi Nervi, Ezra Pound, Pasolini in strada con i suoi ragazzi.

HCB disegna un’Italia in cui ancora si giocava nei cortili, si mangiavano gli spaghetti per strada, ci si spostava in gondola per lavoro e in piccole Fiat 600 per le strade sterrate della provincia. Essa appare, anche al primo sguardo, come titolavano i giornali tedeschi, il “Paese del sentimento”. Ma soprattutto, quella di Cartier-Bresson oggi si rivela come una fotografia ancora in grado di mostrare interesse per l’uomo.

“Non sono né sentimentale né romantico: sono umano. La fotografia è uno strumento realista”, dice. E confessa quella strana voracità grazie alla quale il fotografo vorrebbe “divorare il mondo”, roso da un’inquietudine, a volte da una vera angoscia che lo porta a scattare a ripetizione “anche se spesso la prima fotografia del rullino, alla fine, si rivela quella giusta”.

Ma forse la sequenza del film di Nelo Risi più affascinante è proprio quella in cui si vede questo quieto signore borghese che si infila tra la folla e scatta di nascosto, quasi danzando, confondendo il timido clic della Leica in mezzo ai rumori della strada; e come se fosse una spia mette in atto, appunto, quel “bruciapelo”, quel contatto immediato e non privo di rischi capace di lasciare sulla pellicola vere tracce di vita dei suoi simili: non tutti i fotografi fotografano così, ma certo la mostra di Torino ci fa (finalmente, verrebbe da dire) capire come lavorava questo maestro assoluto.

Nella stessa sede, fino al 6 aprile merita una visita anche Riccardo Moncalvo. Fotografie 1932-1990, 60 stampe vintage che ripercorrono la carriera del professionista  torinese.

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