Mattarella, Draghi, Meloni. Tre “Europe”. Mattarella ha approfittato di Cernobbio per proporre la sua. Eccole a confronto
Non era difficile prevedere che Sergio Mattarella avrebbe approfittato di Cernobbio per riprendersi una scena post-estiva finora monopolizzata dai “discorsi di Rimini” di Mario Draghi e Giorgia Meloni. E il suo video – indirizzato alle élites riunite a porte chiuse sul lago di Como – è stato in effetti centrato sul confronto geopolitico e sulla sfide di Big Tech: i temi principali affrontati dal vivo, davanti al popolo del Meeting, dall’ex presidente della Bce e dalla premier.
La parola-chiave in gioco in tutti e tre gli interventi è stata “Europa”. Tre Europe diverse.
1) L’Europa desiderata da Draghi è quella del suo Rapporto (proprio in questi giorni su varie testate europee sono usciti corsivi-fotocopia, “In un anno la nuova Commissione ha realizzato solo il 10% dell’agenda Draghi”). È una Ue che dovrebbe replicare il Recovery Plan post-Covid – concepito sempre dall’ex premier italiano – nell’orizzonte della confrontation ibrida disegnata dal conflitto russo-ucraino, in cui paiono già confondersi un cessate il fuoco precario e il prosieguo di una guerra a bassa intensità. Non solo con Mosca come avversario, ma anche con Cina e forse India.
La Ue di Draghi deve dunque riarmarsi, investendovi molte centinaia e prevedibilmente migliaia di miliardi: raccolti con debito definitivamente messo in comune (dopo quello che ha finanziato 750 miliardi per i 27 Pnrr). Quest’Europa dovrebbe includere da subito l’Ucraina, sostenendovi in prima linea la ricostruzione. E quest’ultima pare potersi affiancare al riarmo come traino per la ripresa della competitività industriale e tecnologica (proprio a Cernobbio Volodymyr Zelensky è parso preoccupato di promuovere in Europa la nuova centralità di Kiev nella produzione di armi “5.0”, sull’asse droni/AI).
Ancora, quella di Draghi è una Ue che può e deve approfittare del disimpegno tendenziale degli Usa di Donald Trump dall’Ucraina per ritrovare protagonismo geopolitico/economico: negoziando con più forza i dazi Usa, marcando fra l’altro la difesa stretta di una civiltà politico-economica “occidentale” di cui l’America trumpiana parrebbe dubitare.
Proprio a questo fine – è stato il passaggio più forte, originale e infine discusso di Draghi a Rimini – la Ue dovrebbe archiviare con decisione l’Europa “evaporata” di Maastricht: anzitutto la democrazia formale ma inefficiente/inefficace dell’unanimità nelle decisioni nel Consiglio Ue (meglio la maggioranza qualificata del consiglio tecnocratico della Bce, in cui lo stesso Draghi ha tenuto per anni in scacco la stessa Bundesbank).
2) Deve certamente cambiare – sta già cambiando sotto la pressione dei fatti – anche l’Europa inquadrata da Meloni: premier di un Paese fondatore, ormai da tre anni nella stanza delle decisioni a Bruxelles. Al Meeting è risultata tuttavia evidente la distanza fra un alto eurocrate – e premier istituzionale in Italia – e un capo di governo vincente alle elezioni interne e poi a quelle europee.
L’anno scorso il governo Meloni ha avuto ragione del pesante tentativo di “cordone europeista” contro l’Italia di destra-centro. Volevano isolare Roma dalle decisioni Ue il cancelliere social-verde tedesco Olaf Scholz (poi spazzato via a Berlino da elezioni anticipate) e il presidente liberal-tecnocratico francese Emmanuel Macron, che però proprio l’euro-voto 2024 ha trasformato in una anatra zoppa anzitutto a Parigi.
L’Europa di Meloni è dunque quella di Ursula von der Leyen (e della presidente dell’europarlamento Roberta Metsola, lei pure Ppe). È la Ue che secondo molti media è stata il vero obiettivo delle critiche di Draghi (giudicate infatti da qualcuno ambivalenti e spericolate). Ed è un’Unione che pare aver trovato un suo equilibrio sull’asse fra Roma e Berlino, dove ora governa il cancelliere popolare Friedrich Merz. In attesa di vedere gli sviluppi in Francia, dove l’ultima scommessa di Macron potrebbe essere un governo fra liberali “macroniani” e socialisti (i “dem” francesi).
L’Europa di Meloni (e di Merz) non è certo “volenterosa” di perdere la guerra in Ucraina a vantaggio del Cremlino, ma – a differenza delle volenterose Parigi e Londra, e più in sintonia con Washington – vuole farla finire, in un quadro di progressiva stabilizzazione, non di escalation militare a lungo termine. E su questa direttrice paiono correre orientamenti visibilmente omogenei fra Italia e Germania.
Ovvero sì alle garanzie per la sicurezza di Kiev a fini di cessate il fuoco, ma senza un “esercito europeo” ai confini russi e con un percorso di medio termine per l’ ingresso ucraino nella Ue. Sì alla costruzione di una difesa europea, ormai irrinunciabile, ma no al riarmo come traino prioritario e strategico dell’Azienda-Europa. E no a ReArm come spinta per un’Europa “non (più) allineata” con gli Usa. Sì, al contrario, a una “Nato 2.0” ristrutturata assieme agli Usa e – se praticabile – anche a Giappone e Australia.
E se Draghi si era spinto a Rimini a sollecitare l’Europa a “svegliarsi dopo l’elezione di Trump”, vi sono pochi dubbi che, per Meloni, Washington – con Trump oggi come con Biden ieri – resta il partner strategico unico e indiscutibile, senza spazi per opposizioni transatlantiche di stampo politico o per avventurosi valzer con la Cina.
3) Diversa ancora sembra l’Europa che ha in mente il presidente della Repubblica. Il quale ha fatto titolo sui giornali di ieri per essersi mostrato nel video a Cernobbio chiaramente preoccupato per l’Europa “dei sovranisti”, come Mattarella continua a chiamare – con accezione negativa – le forze politiche che l’anno scorso hanno visto accrescere democraticamente il loro peso a Strasburgo. E questo è avvenuto in un’Europa in cui – salvo che in Danimarca e in Spagna, in modo pericolante – i “dem” in cui il presidente italiano si riconosce sono stati via via puniti anche nelle elezioni nazionali.
L’Europa “europeista” di Mattarella “ripudia la guerra”: sembra quindi volere la fine della guerra fra Russia e Ucraina, in questo certamente riecheggiando Papa Leone (un americano). Non è però chiaro quanto dal Quirinale sia giunto un assenso al governo italiano che non intende inviare truppe nell’Est Europa.
Quanto quindi Mattarella stia differenziando la sua posizione da quella del volenteroso Macron (cui il presidente italiano è legato da un Trattato di amicizia controfirmato da Draghi).
Meno dubbi sembrano esservi invece sull’allarme di Mattarella contro Big Tech. È stato mirato contro Elon Musk e i suoi Grandi Fratelli, tutti più o meno legati alla Casa Bianca di Trump. Un’America che al Quirinale non è piaciuta fin dal primo giorno né potrà mai piacere. È troppo diversa da quella del “dem” Bill Clinton che alla fine del secolo scorso guidò l’“operazione militare speciale” della Nato contro la Serbia filorussa (bombardando fra l’altro l’ambasciata cinese di Belgrado). L’Italia diede appoggio politico-militare pieno: premier era Massimo D’Alema, vicepremier era Mattarella, con delega ai servizi di intelligence.
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