La perdita della “Françafrique” ha un ruolo sottovalutato nella crisi politica francese, che l’8 settembre potrebbe toccare il suo momento più profondo
La crisi francese non è solo una questione di conti pubblici. È un’agonia, una resa dei conti che si consuma su più fronti. L’8 settembre, quando il premier François Bayrou chiederà un voto di fiducia all’Assemblea Nazionale, il destino del governo e quello di una nazione si fonderanno in un unico, drammatico “va-tout” (tutto per tutto).
Non è solo una questione di cifre, ma di dignità nazionale, di un’influenza perduta e di una grandezza che si sta sgretolando sotto il peso di errori politici e delusioni geopolitiche.
Il piano di Bayrou, che mira a un risparmio draconiano di 44 miliardi di euro, è il catalizzatore di questa crisi interna. È un atto di fede che rasenta l’eresia, prevedendo tagli feroci, una revisione delle pensioni e, soprattutto, la cancellazione di due giorni festivi.
Ed è proprio questa misura che ha fatto scattare la molla della ribellione popolare. Con l’86% dei francesi dichiaratosi contrario, il malumore ha già un appuntamento con la storia: il 10 settembre è stato indetto uno sciopero generale. La piazza ha scelto la sua data, e la rabbia è pronta a riversarsi nelle strade, trasformando la crisi parlamentare in un potenziale scontro sociale.
Il teatro politico francese si è trasformato in una commedia dell’assurdo. A destra il Rassemblement national di Marine Le Pen, e a sinistra La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon hanno stretto un’alleanza innaturale. Un’intesa tra opposti che ha un solo, evidente, scopo: far cadere il governo.
Dall’altra parte, il centrodestra dei Républicains ha appoggiato l’esecutivo, non per convinzione, ma per paura, temendo che una sconfitta di Bayrou aprisse le porte al caos e all’estrema sinistra.
Questa instabilità interna non è un fenomeno isolato, ma il riflesso di un declino più profondo, che trova la sua più umiliante espressione in Africa.
Per anni, la “Françafrique” è stata una fonte di ricchezza economica e un pilastro della potenza francese. Oggi quella struttura si è di fatto sgretolata. La perdita di mercati, materie prime e influenza geopolitica in Paesi chiave come Mali, Burkina Faso e Niger, dove regimi militari hanno preferito i contratti russi a quelli francesi, ha minato la credibilità di Parigi.
L’umiliazione del ritiro forzato delle truppe e la comparsa di nuovi attori come la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping hanno reso palese che il ruolo di potenza mondiale della Francia è ormai un ricordo.
La politica e la geopolitica si incontrano nell’economia e il verdetto è impietoso. Eric Lombard, ministro dell’Economia, ha lanciato un allarme senza precedenti, avvertendo che il costo del debito francese potrebbe presto superare quello dell’Italia, il “malato d’Europa” che, ironia della sorte, oggi sembra più un convalescente.
L’annuncio del voto di fiducia ha scatenato la reazione immediata dei mercati. La Borsa di Parigi è crollata e i tassi sui titoli di Stato francesi a 10 anni sono schizzati alle stelle, un chiaro segnale di sfiducia degli investitori, che ora vedono la Francia in una spirale di declino economico e politico.
Se il governo Bayrou cadrà, non sarà solo la sconfitta di un uomo, ma il segno evidente che la Francia ha voltato le spalle a un’intera epoca. Sarebbe il secondo governo di Macron a essere mandato a casa dal Parlamento, un’umiliazione che non lascerebbe spazio a dubbi: il progetto politico e il “liberismo di sinistra” che ha dominato il Paese sono giunti al capolinea.
Questa non è solo una crisi politica o economica, è un dramma istituzionale in cui si decide il futuro di una nazione che non si riconosce più. La scommessa di Bayrou è un atto di disperazione che ha il sapore della tragedia. E la Francia, con il fiato sospeso, attende di vedere se la verità che Bayrou voleva dire al suo popolo, alla fine, sarà la verità della sua caduta.
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