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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » GAS & PETROLIO/ Inverno, embargo e Cina cambiano gli equilibri mondiali

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GAS & PETROLIO/ Inverno, embargo e Cina cambiano gli equilibri mondiali

Ugo Bertone
Pubblicato 4 Dicembre 2022 - Aggiornato alle ore 08:58
cina

(LaPresse)

C'è attesa per la riunione dell'Opec+ e per l'inizio dell'embargo sul petrolio russo, in un momento in cui per l'Europa torna anche cruciale il gas

I barili dei magazzini di Santa Barbara, secondo gli esperti, stavolta potrebbero avere le polveri bagnate. La riunione dell’Opec+, convocata a Vienna per oggi, si terrà infatti via videoconferenza. Ovvero, a giudicare dai precedenti, la riunione si limiterà a ribadire i livelli di produzione esistenti.

Per cambiare rotta, vuoi al ribasso (come suggerito dal calo dei prezzi) o al rialzo (vedi le richieste Usa), ci vuole un confronto “fisico” tra gli sceicchi e la Russia, da domani alle prese con l’embargo del G7 che potrebbe strangolare l’economia di Putin. Almeno così si pensa nelle sale operative, a caccia di una bussola per orientarsi in una situazione quasi inedita.


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Più che il confronto tra i produttori, stavolta, contano fattori imprevedibili, a partire dalla protesta di migliaia di giovani cinesi che, impugnando fogli bianchi in segno di protesta per la censura imposta, inutilmente, in funzione anti-Covid, hanno segnalato i problemi della Cina, il maggior consumatore di petrolio del pianeta. È un sintomo di malessere destinato a durare almeno per tutto il 2023, come temono molti osservatori, oppure l’occasione per una svolta in grado di rilanciare nel breve termine prezzi e consumi?


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Forse mai, come in questi giorni, si intrecciano i destini della geopolitica e dell’economia globale. Le proteste dei ragazzi di Shanghai, così come l’eroica lotta delle ragazze dell’Iran pesano sul futuro dell’energia (e di riflesso sulla lotta all’inflazione) tanto quanto il braccio di ferro sulle forniture dell’energia in arrivo dalla Russia. Il risultato? Un quadro difficile da prevedere. Il 2 ottobre scorso l’Opec+ (compresa la Russia) ha deciso il taglio della produzione per due milioni di barili con l’obiettivo di difendere i prezzi. Un’operazione gradita a Mosca, ma accolta come una provocazione dagli Usa, che avrebbe dovuto riportare i prezzi del greggio attorno ai 120 dollari al barile. Al contrario, complice la frenata dell’economia cinese, i prezzi sono scesi attorno agli 80 dollari, con il risultato di regalare un’inattesa primavera alle borse europee (+22% da allora Piazza Affari) e Usa.


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Ma adesso? L’inverno più rigido non potrà che obbligare i Paesi europei a riprendere presto gli acquisti di gas. Al “price cap”, intanto, non ci crede più nessuno. L’eventuale ripresa dell’attività in Cina, combinata con la discesa dell’inflazione in Europa dalla prossima primavera, potrebbe far schizzare all’insù i prezzi del combustibile. Senza peraltro convincere le Big Oil a investire di più sull’energia tradizionale. Domina l’incertezza dunque. Anche se molte cose potrebbero cambiare dopo il weekend: l’embargo del G7, deciso a impedire l’export di Mosca via mare (non a caso la Russia sta schierando navi nel Mediterraneo a difesa delle proprie petroliere), così come l’atteggiamento di Pechino e New Dehli, potrebbero fare la differenza negli equilibri geopolitici, ancor più dei missili che fischiano nei cieli del Donbass.

Gli equilibri del petrolio e, più in generale, dell’energia non bastano ovviamente a interpretare una realtà molto complessa. Ma aiutano. Un anno fa, ai tempi della disordinata ritirata degli americani da Kabul, la crisi delle democrazie sembrava ormai irreversibile. L’Occidente, impegnato negli investimenti per l’energia rinnovabile, aveva ridotto sotto la soglia minima gli investimenti nell’energia fossile, specie nelle raffinerie specializzate nel diesel. La Germania, una volta ultimato il gasdotto Nord Stream 2, sembrava destinata a dipendere interamente dall’energia di Mosca. Pochi mesi dopo Putin, messe le basi per l’aggressione a Kyiv, otteneva l’assenso di Pechino e l’appoggio dell’Iran, in grado di neutralizzare la supremazia Usa nel Medio Oriente, già indebolita dall’atteggiamento ambiguo della Turchia.

Insomma, l’asse delle autocrazie Mosca-Pechino-Teheran sembrava in grado di metter sotto scacco non solo la tremebonda Europa, abbarbicata sulla Nato in via di esaurimento (definizione di Macron), ma anche la democrazia Usa, insidiata da Donald Trump e dalla corte dei suprematisti. Grazie anche, se non soprattutto, alla leadership nell’energia. Ma è andata in maniera diversa. Lo zar Putin, convinto dell’ineluttabile declino delle democrazie, ha sottovalutato la forza dell’Europa, convinto di poter contare sull’ambiguità degli “amici”, forti in Italia, assai meno nel resto del Vecchio Continente. La Cina è finita vittima di un’autolesionistica politica zero Covid, affrontata con strumenti inadeguati, vuoi sul piano scientifico che della gestione amministrativa, che hanno finito con l’esasperare un Paese disciplinato e già votato all’obbedienza grazie a un recente benessere. L’eroica resistenza delle ragazze di Teheran al grido di “donna, vita, libertà” sta facendo saltare gli equilibri del regime sciita, ormai privo di legittimità. E negli Usa la politica dell’America First ha perso parte del suo appeal.

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