Hamas e Israele hanno sulla tregua due piani diversi e non si sa qual A Gaza la treè destinato a prevalere. Intanto Netanyahu vuole allargare la “sicurezza”
A Gaza la tregua sembra aver raggiunto la sua data di scadenza. Hamas vorrebbe passare subito al secondo step, che prevedeva la cessazione dei combattimenti e il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia. Israele sembra invece volere prolungare no stop la prima fase, il rilascio di tutti gli ostaggi, e lasciarsi aperta la possibilità, più che concreta, della ripresa della guerra.
Il nodo Trump
Queste sono, al momento, le intenzioni di Netanyahu, spinto dai falchi del suo governo, gli stessi che gli stanno consentendo di galleggiare al potere, e in aderenza con il piano proposto dal delegato Usa Steve Witkoff per un cessate il fuoco temporaneo durante il periodo del Ramadan (iniziato a Rafah con una lunghissima tavolata allestita tra le macerie) e della Pasqua.
Sullo sfondo agitano gli umori anche le rivelazioni sui buchi dell’intelligence che non ha saputo prevedere il massacro del 7 Ottobre, e i deliri trumpiani sulla Gaza-riviera, un incubo lisergico (postato dallo stesso Trump) colorato dalla mega statua dorata del tycoon e dai due premier, statunitense e israeliano, stesi sui lettini a prendere il sole sulla sabbia della iperbolica riviera, ripulita da palestinesi, immigrati, vu cumprà e quant’altro.
Una sabbia mobile che ha già inghiottito circa 50mila morti e una cifra imprecisata di miliardi di dollari: gli Stati Uniti hanno appena annunciato di aver sdoganato la vendita a Israele di oltre 3 miliardi di dollari in munizioni, bulldozer e altre attrezzature per la sicurezza, proprio mentre gli stessi Usa mettevano in forse i nuovi aiuti all’Ucraina.
Scontro sulla tregua
Hamas di fatto ha respinto la proposta israeliana e statunitense di estensione di 42 giorni della prima fase dell’accordo di tregua. E in risposta Netanyahu ieri ha deciso la sospensione dell’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza “alla luce del rifiuto di Hamas di accettare lo schema di Witkoff”, mentre non erano comunque in corso colloqui sulla seconda fase dell’accordo, destinata a portare ad una fine permanente della guerra. Uno stallo che lascia spazio all’Autorità palestinese e all’Egitto, che si dicono già pronti a presentare un piano per Gaza che non include il trasferimento della popolazione.
Ma non solo Gaza: il Vicino e Medio oriente, quello costiero del Mediterraneo allargato e quello prossimale e confinante, sono aree coinvolte direttamente o di riflesso dal conflitto tra Israele e le falangi terroristiche islamiste.
Siria
Il primo ministro Netanyahu e il ministro della Difesa Katz hanno annunciato di aver incaricato l’IDF di prepararsi a difendere la comunità drusa di Jaramana, nell’area di Damasco, nel sud della Siria, avvertendo che “se il regime in Siria danneggia i drusi, sarà a sua volta danneggiato da noi”. Una Siria debole e incerta è lo scopo delle pressioni di Tel Aviv sugli Usa, anche a costo di lasciare che la Russia mantenga lì le sue basi militari, tutto pur di contrastare la crescente influenza della Turchia nel Paese.
Emissari israeliani avrebbero riferito a Washington che i nuovi leader islamisti siriani, sostenuti da Ankara, rappresentano una minaccia per i confini di Israele, proprio mentre quegli stessi leader stanno cercando di ottenere dagli Usa la revoca delle sanzioni.
Libano
Il Paese dei cedri vive un ennesimo stallo. Si calcola che le milizie Hezbollah abbiano perso circa 10mila combattenti, e non è dato ancora sapere quanti abbiano perso la vita sotto le macerie dei bombardamenti. È noto invece il numero delle vittime del famoso scoppio dei cercapersone: sono rimasti mutilati o feriti gravemente 4mila ufficiali e quadri di Hezbollah, oltre ai morti.
Di fatto Hezbollah risulta oggi ben ridimensionato rispetto ad un anno fa, quando il loro segretario Nasrallah era venerato e indiscusso leader delle milizie, del partito e dello Stato intero. Il suo recente funerale è stato una sorta di dimostrazione scenografica di resistenza, con una folla imponente che inneggiava i manifesti che riportavano il suo ritratto, e con l’attuale segretario Naim Qassam che proclamava a gran voce che Hezbollah continuerà ad oltranza la resistenza contro Israele.
Ma è stato solo uno show: sembra che la consegna delle armi all’esercito regolare sia ormai per Hezbollah una scelta obbligata, in ottemperanza sia dei vecchi accordi di Taif (appunto sul disarmo di tutte le milizie) che della risoluzione 1701 dell’ONU (senza disarmo non arriveranno i fondi per la ricostruzione dei villaggi distrutti nel sud del Paese).
West Bank
Poco dopo il cessate il fuoco a Gaza, lo scorso gennaio, subito dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, Israele ha avviato una campagna militare (“Iron Wall”) in Cisgiordania. Sono stati colpiti con attacchi aerei e di terra i campi rifugiati di Jenin, Tulkarem e Nur Shams, provocando un numero imprecisato di vittime e 40mila nuovi profughi.
Da allora la campagna israeliana prosegue (e durerà oltre un anno), pericolosamente simile a quella condotta a Gaza, con i carri armati che sono entrati nei territori. L’obiettivo dichiarato di Israele è stanare i terroristi e proteggere e agevolare l’insediamento di nuove colonie. Ma anche l’Autorità nazionale palestinese (ANP), che governa sulla porzione non occupata della Cisgiordania, aveva intrapreso operazioni a Jenin, bloccando miliziani legati alla jihad islamica. Adesso la situazione resta molto difficile, tra frequenti posti di blocco volanti anche nei pressi di Ramallah, blocchi che rendono complicato se non impossibile ogni spostamento.
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