Oggi si riunirà il tavolo delle trattative sul piano Trump per Gaza. Un piano che mette in difficoltà Netanyahu e chi lo appoggia
Guerra in Medio oriente, giorno 731, circa 70mila vittime complessive e oltre 700mila sfollati. Si parla di tregua, ma nessuno s’azzarda a predire quanti giorni di combattimenti davvero debbano trascorrere ancora prima di arrivare ad una pace effettiva. Israele ha annunciato d’aver recepito il piano di Trump, il presidente motivatissimo dal suo sogno del Nobel. Hamas ha assunto una medesima postura. Ma siamo in Medio oriente, e qui niente è mai tutto bianco o tutto nero, e il sì quasi sempre è un forse.
Non sono chiari, ad esempio, i tempi per il ritiro delle forze israeliane, anche perché se la guerra venisse congelata lungo le attuali linee del fronte, almeno nel futuro più prossimo il 75-80% del territorio della Striscia rimarrebbe in mano israeliana.
E in Israele i membri di estrema destra dell’esecutivo non sembrano approvare del tutto il piano, soprattutto per quanto riguarda la nascita ipotizzata di uno Stato palestinese. È difficile immaginare come Netanyahu possa andare avanti con il piano di Trump e mantenere ancora gli estremisti nella sua coalizione.
“Nonostante abbia subìto il ridicolo, l’iniziativa a due Stati franco–Saudita ha pesantemente influenzato il piano di Gaza di Trump – sostiene l’analista Liza Rozovsky –. Il piano, lanciato a fine settembre, inizialmente sembrava avere un significato pratico pari a zero. Ma nonostante gli insulti di Netanyahu, ha influenzato il piano di cessate il fuoco di Trump in punti chiave. L’iniziativa inizialmente aveva dato l’impressione di essere goffa e invece…”. Ed invece sembra che proprio quel piano franco-saudita abbia contribuito non poco ai 20 punti di quello trumpiano.
Pur con molti dubbi, intanto a Gaza le forze israeliane sono passate a operazioni “difensive” – riferisce Haaretz –, in attesa di vedere gli sviluppi dei negoziati che dovrebbero essere iniziati ieri per proseguire oggi in Egitto, chiesti a gran voce da Hamas per discutere “i dettagli” più controversi.
L’esercito di Tel Aviv ha frenato le operazioni per evitare di danneggiare i negoziati e il capo di stato maggiore dell’IDF Eyal Zamir ha incaricato gli alti ufficiali di evitare incidenti con altre vittime civili. Ma il direttore dell’ospedale Al-Shifa Mohamed Abu Selmiyah ha detto che sebbene il bombardamento di Gaza City si fosse “significativamente attenuato”, gli attacchi israeliani hanno comunque ucciso ancora.
Oggi al tavolo delle trattative dovrebbero sedere l’inviato speciale degli Stati Uniti Steve Witkoff, il consigliere senior della Casa Bianca Jared Kushner, il ministro degli affari strategici israeliano e capo negoziatore Ron Dermer, il capo del servizio di sicurezza Shin Bet e altri alti funzionari della sicurezza. Israele è pronto a presentare nei colloqui le mappe per il ritiro iniziale dell’IDF.

Dal canto suo, Hamas ha già annunciato che è disposto a rilasciare tutti gli ostaggi israeliani, vivi e morti, ma la loro consegna entro 72 ore è “irrealistica”. Per quelli ancora in vita non dovrebbero esserci problemi, ma recuperare le salme di quelli uccisi tra le macerie può essere impossibile, almeno in tempi brevi. Proprio mentre il premier Netanyahu annunciava che Israele “si sta preparando per l’immediata attuazione” della prima fase del piano, ma solo quando gli ostaggi saranno rilasciati.
Hamas sarebbe anche diviso sul disarmo: il suo comandante militare avrebbe detto ai mediatori che avrebbe consegnato razzi e altre armi offensive all’Egitto e alle Nazioni Unite, ma avrebbe tenuto le armi di piccola portata. I comandanti sul campo di Hamas temono anche che le reclute possano rifiutarsi di disarmare. Ancora condizionali, ancora dubbi, ancora tanti “forse”.
“Ironia della sorte, però, ora ci sono somiglianze tra Israele e Hamas – sostiene l’editorialista Amos Harel –. L’opinione pubblica tra gli israeliani e tra i palestinesi a Gaza sembra avere un ampio sostegno per un accordo che porrebbe fine allo spargimento di sangue, almeno temporaneamente. Ma sia in Israele che a Gaza, la leadership è diffidente di un accordo che potrebbe danneggiare la posizione interna”.
Una posizione che in Israele sconta anche l’immagine deteriorata del Paese, accusato da un mainstream internazionale (al quale sembra però che proprio i Paesi arabi restino immuni) che spesso maschera un diffuso antisemitismo carsico.
Pur tre mille incertezze, si sogna comunque un nuovo Medio oriente, ma è necessario iniziare da un grande disarmo, condizione fondamentale per garantire gli aiuti umanitari e gli sforzi internazionali per la ricostruzione: Hezbollah in Libano; milizie islamiche, curde e druse in Siria; e Hamas a Gaza. “Siria, Libano e Palestina sono aree in cui i Paesi donatori come gli Stati del Golfo, più degli Stati Uniti e di Israele, potrebbero guidare la costruzione di un nuovo Medio Oriente – scrive Zvi Bar’el su Haaretz –.
Aspettatevi alcuni scontri ideologici e strategici tempestosi. Qui sta il rischio affrontato dal piano di Trump, con le parti che già si lamentano sui dettagli del giorno dopo. L’implementazione della prima fase non è ancora una cosa certa, e lo schema della fase finale è vago”.
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