I 21 punti del piano Trump per mettere fine alla guerra di Israele a Gaza sono molto fragili. E Hamas ha detto di non averli ricevuti
La notizia, rilanciata dai media di mezzo mondo ormai diverse ore fa, su un possibile accordo per tentare di risolvere la crisi di Gaza è di quelle che non possono che far piacere, ma progressivamente sembra perdere realtà, perché – ancora una volta – non si capisce quanto ci sia di vero e quanto invece Trump traduca in “quasi certezze” le sue speranze di accordo (o altri calcoli).
Il fatto nuovo era che Hamas avrebbe accettato il principio del rilascio degli ostaggi (morti o vivi che siano, quanti siano ancora veramente vivi è un tragico mistero) contro una sospensione progressiva delle operazioni militari di Israele a Gaza.
È un punto importante perché, rilasciando gli ostaggi, Hamas perderebbe l’unica vera e forte moneta di scambio che attualmente ha in mano.
Ma poniamo pure che Israele accetti questa soluzione e che nei colloqui di lunedì a Washington con Trump, Netanyahu confermi la mediazione: come concretizzarla in una situazione incandescente e mentre continuano gli scontri e viene rifiutata qualsiasi tregua?
I 21 punti indicati da Trump – probabilmente anche grazie ad un certosino lavoro diplomatico degli Emirati Arabi e soprattutto del Qatar – sono in parte concreti e attuabili a breve, ma in maggioranza solo teorici o comunque molto vaghi.
Trasformare Gaza in un’area libera “da estremismo e terrorismo” è un’idea formidabile, ma chi sono gli “estremisti” per le due parti? Così come Netanyahu avrà contro buona parte dell’opinione pubblica israeliana se alla fine, per poche decine di ostaggi potenzialmente ancora vivi, avrà fatto liberare (oltre che quelli già liberati in passato) oltre mille nuovi palestinesi condannati all’ergastolo o severe pene detentive per terrorismo.

Persone che – si può esserne certi – magari con altre sigle o movimenti sarebbero di fatto in buona parte pronti a nuovi attentati o atti di sabotaggio, moltiplicando e rinsanguando proprio i quadri di Hamas colpiti dalle rappresaglie israeliane e che probabilmente, almeno a Gaza, sono sull’orlo del collasso.
Un altro aspetto è che il mondo sta man mano riconoscendo lo Stato palestinese, che però di fatto non esiste, né ha un minimo di credibilità soprattutto tra gli stessi palestinesi. Dove sarebbero i “tecnocrati palestinesi” che Trump immagina possano governare Gaza in questo primo periodo transitorio?
Poi ci sono altri punti “minori” che sottolineano però la ridondanza delle tematiche, come quella che Israele si impegnerebbe “a non effettuare attacchi in Qatar”. Ma si è mai visto dover normare un punto basilare della diplomazia internazionale, quasi fosse “normale” che un Paese ne attacchi un altro a distanza, soprattutto là dove sono in corso trattative di pace?
Bene quindi all’aprirsi di uno spiraglio, ma ragionevolezza vuole che si sottolinei come l’accordo sia molto lontano, soprattutto se non ci fosse davvero una seria volontà delle parti e gli accordi fossero quindi frutto solo di un calcolo di convenienza momentanea, ma senza crederci davvero.
Una tentazione per Israele, che si è trovato emarginato come non mai nel mondo, anche dagli alleati tradizionali; con il rischio che Trump perda la pazienza ed in qualche modo – come gli europei – limiti l’invio di armi allo Stato ebraico. Mentre, dall’altra parte, Hamas ha necessità di riprendersi e predisporre una nuova rete di comando dopo le perdite inflitte da Israele in questi due anni di guerra.
Insomma, siamo in una situazione molto fluida dove è doveroso sperare, ma dove i rischi che tutto si blocchi sono dietro l’angolo. Senza dimenticare che intanto Israele prosegue nella sua azione militare a Gaza: la gente è sempre più disperata e cresce nel mondo un’ostilità profonda, ormai non più solamente contro il governo israeliano, ma contro “tutta” Israele e più in generale contro il mondo ebraico, non importa se più o meno contrario alla politica di Gerusalemme.
Occorre sperare, ma un minimo di realismo impone davvero prudenza ed è doveroso molto scetticismo. I “post” di un Trump ossessionato dall’essere l’incompreso uomo della provvidenza non bastano più.
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