Gaza deve essere ricostruita ma i palestinesi sembrano esclusi dalle decisioni: hanno bisogno di case e per farle bisogna trovare le risorse

Godiamoci pure questo momento di euforia per il cessate il fuoco. Ma perché il cessate il fuoco non sia un semplice time out, bisogna cominciare da subito a pensare a un futuro dove il fuoco deve servire a bruciare, a spazzare via le macerie, non solo materiali, che occupano Gaza.

Infatti alla ricostruzione di Gaza tutti, ciascuno a suo modo, stanno pensando.



Innanzitutto, una ricostruzione umana, poi, una amministrativa e politica: sia l’una che l’altra evidentemente saranno molto difficili. Non è inutile ricordare, anche se questo non ci fa piacere, che a Gaza Hamas aveva vinto le elezioni. Certo Hamas aveva dei concorrenti, dagli eredi dell’OLP alla Jihad islamica, ma non ci risulta la presenza né di conservatori filoamericani, né di qualcosa che assomigliasse al Pd.



Chi governerà Gaza e si curerà della sua ricostruzione? Pare debba farlo Tony Blair. Forse facendo da semplice supervisore, forse in ricordo di quando la Palestina, e lo stesso Israele, fino al 1948, erano una specie di protettorato inglese, erede della responsabilità di governo nata dalla sconfitta dell’Impero ottomano.

“Grazie Trump, grazie Blair, ma la Palestina non è vostra e alla sua ricostruzione preferiremmo pensarci noi” potrebbero ribattere i palestinesi. Sì, ma con quali rappresentanti? E poi con quali risorse si può attuare una ricostruzione che assicuri che la Palestina non diventi un Paese di eterni mendicanti, prima o poi costretti ad attraversare non su una Flotilla ma su dei gommoni il Mediterraneo?



Palestinesi prendono aiuti da un camion arrivato a Khan Yunis, Striscia di Gaza, 12 ottobre 2025. EPA/HAITHAM IMAD

Nel mare prospiciente le coste c’è il petrolio, ma ci vorranno tempo e finanziamenti per estrarlo. Non a caso, paradossalmente, in un modo allora veramente irrispettoso della situazione del popolo, Trump ha immaginato che a Gaza possa sorgere una “Riviera”, destinata a ospitare stranieri portatori di “money”.

E così i palestinesi rimasti senza casa dove andrebbero? Nei campi profughi? O a Lampedusa?

Mi pare del resto che la UE, finora rimasta un po’ in disparte, sull’esempio dell’Italia sia disposta a mandare aiuti umanitari. Ne servono molti e urgenti, in questo momento assolutamente necessari per venire in soccorso alla popolazione. Ma poi di aziende capaci di costruire, e prima ancora di rimuovere le macerie, in quantità ben superiori alla montagnetta di San Siro anche noi ne abbiamo, ma non sono enti di beneficenza. Chi pagherà? Gli Stati europei e i vari movimenti pro-Pal, a cui si dovrebbe chiedere soldi non per organizzare una Flotilla ma per costruire case e scuole? Alle chiese ci penserà il patriarcato, alle moschee dovrebbero pensarci i ricchi Paesi arabi, quanto alle sinagoghe…

Rimane, lo ripeto, la questione delle risorse. Mi viene in mente l’esempio di Astana, la capitale del Kazakhstan, costruita in gran parte da aziende turche e dei Paesi del Golfo, ripagate dai proventi del petrolio e del gas.

Parlare di soldi, di investimenti, quando la gente soffre ancora per la fame e per le ferite della guerra può sembrare inopportuno. Ma per le ragioni sopra esposte, è già il momento di pensare al difficile compito della ricostruzione su cui si misurerà la possibilità di un futuro diverso per la Palestina.

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