Pressing su Netanyahu di Trump (ed Herzog) per tregua e pace. Ma così il governo israeliano rischia. E nessuno sa quale sarà il futuro di Gaza

Stavolta americani e israeliani hanno interessi diversi, difficili da conciliare. Trump vuole la pace per prendersi il Nobel e sviluppare i suoi affari con i Paesi del Golfo. Netanyahu non può accettarlo, soprattutto perché questo significherebbe prendere in considerazione la creazione di uno Stato palestinese. Per questo, il loro incontro alla Casa Bianca è finito senza dichiarazioni.



Il futuro della Striscia di Gaza, quindi, spiega Ugo Tramballi, editorialista del Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, è un’incognita sotto tutti i punti di vista, anche se si dovesse arrivare a stabilire una tregua di due mesi. Non ci sono piani chiari sul da farsi. E forse a Netanyahu va bene così.



Trump e Netanyahu si sono incontrati per la seconda volta in pochi giorni, ma questa volta alla fine hanno fatto scena muta. Cosa significa? Che sono lontani da un accordo su tregua e futuro di Gaza?

È un negoziato difficile: per la prima volta fra USA e Israele si palesano due interessi diversi. Trump vuole imporre la pace perché, e non è uno scherzo, aspira al Nobel; inoltre, per lui la politica estera è business, e gli affari con i Paesi del Golfo non si fanno senza portare la pace a Gaza e avviare un processo negoziale sul futuro della Palestina. Netanyahu, però, vuole esattamente il contrario e, come la gran parte degli israeliani – anche l’opposizione – non vuole veder nascere uno Stato palestinese. Il premier israeliano sa che, se accettasse una tregua di due mesi, dovrebbe mettersi nell’ordine di idee di negoziare la pace. E questo farebbe cadere il suo governo, perché gli ultranazionalisti religiosi vogliono continuare la guerra e cacciare i palestinesi. Lui stesso, d’altronde, non la pensa molto diversamente.



Riusciranno a trovare un punto di equilibrio?

Gli Stati Uniti sono l’unico Paese al mondo che può condizionare Israele. Se Netanyahu dirà di no a Donald Trump, il presidente americano potrebbe fare qualcosa che nessuno nella storia degli USA ha mai fatto, tranne George Bush padre e il suo segretario di Stato James Baker: sanzionare Israele, decidendo di non vendergli più armi e munizioni. Israele dipende totalmente dagli Stati Uniti per la sua sicurezza.

Ma la società israeliana, in questo momento, è disposta ad accettare tregua e trattative di pace?

Prima di partire per gli USA, Netanyahu è andato a trovare Isaac Herzog, il presidente israeliano, ex laburista. Dall’alto del suo ruolo, il presidente gli ha detto di portare a casa gli ostaggi. Gli israeliani vogliono la pace non per dare uno Stato ai palestinesi, ma per riavere gli ostaggi, i vivi e i morti.

Secondo Times of Israel, l’accordo per la tregua a Gaza è fatto per il 90 per cento. Nel 10 per cento, tuttavia, c’è la questione della fine della guerra, che Hamas chiede da tempo. L’intesa è vicina o lontana?

Non è solo Hamas che vuole finire la guerra. Per l’organizzazione palestinese, comunque, terminare il conflitto significherebbe in qualche modo vincere: la sua stessa sopravvivenza verrebbe considerata un successo. Ci sono tanti modi per far cadere Hamas, non necessariamente dal punto di vista militare; del resto, dopo 21 mesi di combattimenti, i suoi miliziani sono stati capaci di ammazzare e ferire una quindicina di soldati dell’IDF. Una volta ottenuta la pace, invece, si possono alimentare altre fazioni palestinesi, come quelle legate alle tribù beduine. Non credo infatti che i gazawi siano tutti contenti di trovarsi ancora Hamas tra i piedi.

Ehud Barak, ex premier israeliano, sostiene che Netanyahu non ha un obiettivo chiaro per la guerra. Davvero mira al mantenimento del conflitto comunque?

Di solito un Paese fa la guerra perché ha un obiettivo politico. Invece Israele ha avviato il conflitto senza mai dichiararlo, limitandosi ad annunciare di voler sradicare Hamas, che però è ancora lì.

Perché Netanyahu non lo ha indicato?

Se avesse dichiarato di puntare a restituire Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), il suo governo sarebbe caduto, perché i suoi alleati estremisti nazionalisti e religiosi vogliono riannettere la Striscia, riaprire le colonie e cacciare i palestinesi. Un progetto che isolerebbe Israele dal resto del mondo. Non potendo dichiarare che cosa vuole, non l’ha mai fatto. Poi c’è da tenere conto di un aspetto tutto personale: finita la guerra, Netanyahu dovrà rispondere del 7 Ottobre, di come Israele è stato aggredito con facilità. Non solo: ha comunque un processo e tre capi d’accusa per corruzione. Ecco perché non ha mai detto davvero né sì né no al progetto degli estremisti o all’idea di Stato palestinese, al quale comunque è contrario. Così la guerra va avanti per inerzia.

Reuters ha pubblicato i piani per la creazione di campi profughi a Gaza che prevedono la possibilità, per chi vuole, di lasciare la Striscia per un’altra destinazione. Il ministro israeliano Katz, intanto, parla di una città umanitaria vicino a Khan Younis in cui convogliare i palestinesi. Avverrà così la deportazione?

Il termine giusto per definire tutto questo è pulizia etnica, anche se camuffata da intervento umanitario. Parlare di città umanitaria mi fa venire in mente 1984 di Orwell. La guerra la chiami pace, la morte la chiami vita, la dittatura la chiami democrazia e non cambia niente. Qui viene definita “città umanitaria” un campo di concentramento, mentre si parla di “esodo volontario” dopo 21 mesi di bombardamenti in cui i palestinesi sono stati ridotti alla fame, senza avere nemmeno il pane, ammazzando donne e bambini e distruggendo ospedali e scuole. È una forma di pulizia etnica ancora più brutale di una pulizia etnica dichiarata, come quella che si sta realizzando in Cisgiordania. Tutto ciò mentre i Paesi europei non muovono un dito per sanzionare Israele. Fatico a trovare al mondo un Paese che fa impunemente le cose che sta facendo Israele. È veramente uno scandalo.

I piani di deportazione, però, continuano a circolare. Prima o poi li realizzeranno?

C’è un motivo per cui sono irrealizzabili: chi si prende i palestinesi? Nessuno li vuole. Nella storia del Medio Oriente questo è sempre stato un elemento destabilizzante. Gli egiziani non accetteranno mai, i giordani hanno già il 70 per cento della popolazione palestinese.

Insomma, il futuro di Gaza resta un’incognita totale?

Anche se fanno l’accordo per la tregua, non si sa cosa succederà dopo. L’unica speranza è che cada il governo israeliano, si vada a elezioni e Netanyahu finisca in carcere. E che prenda il potere un nuovo esecutivo che, anche senza essere favorevole a uno Stato palestinese, quantomeno avvii una trattativa diplomatica. Anche Rabin, Shimon Peres o Moshe Dayan hanno capito, a un certo punto della loro carriera militare, che era necessario fare un accordo con i palestinesi per dare un futuro di sicurezza a Israele.

Secondo un dirigente di Hamas rimasto anonimo, l’organizzazione controlla ormai solo il 20 per cento di Gaza. C’è la possibilità che la Striscia venga abbandonata a sé stessa, in balìa delle milizie?

Gaza è già una specie di Somaliland. Anche dentro Hamas ci sono divisioni tra la dirigenza politica, che sta a Doha, e quella militare nella Striscia. Ci sarebbe un piano già definito a livello internazionale: dopo la pace, dovrebbe prendere il potere un governo tecnico palestinese, guidato dall’ANP e sostenuto da una forza di interposizione di sicurezza multiaraba, per garantire la tranquillità del territorio e iniziare la ricostruzione. Il problema è che questo programma non è condiviso dagli israeliani. Tel Aviv, però, non può abbandonare la Striscia a sé stessa: nel caos potrebbe riprendere forza il jihadismo.

(Paolo Rossetti)

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