Nel suo famoso Viaggio in Italia, sorta di “diario di bordo” uscito poco più di duecento anni fa – con l’industrializzazione selvaggia di là da venire e la natura che domina incontrastata il paesaggio – Goethe si fa ispirare dal suo grande amore per gli alberi e la vegetazione in generale per domandarsi: “A cosa vale guardare senza pensare?”. Su questa stessa scia e meno di un secolo più tardi, Proust scrive che “non abbiamo nulla da temere e molto da imparare dagli alberi”, mentre poco tempo dopo Tagore sottolinea che “gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto”. Gli esempi in questo campo, attinti ad ogni epoca e cultura, potrebbero continuare all’infinito.
A proposito: Leopardi, ne L’infinito di cui abbiamo appena celebrato i duecento anni, si fa ispirare da “il vento” che, scrive, “odo stormir tra queste piante” per abbandonarsi al ricordo de “l’eterno/e le morte stagioni e la presente/e viva e ‘l suon di lei”.
Citazioni cui facilmente rimandano le “Giornate Fai all’aperto” che il Fondo per l’ambiente italiano ha in calendario per il 27 e 28 giugno prossimi. A tre mesi di distanza dalle tradizionali “Giornate di primavera”, quest’anno cancellate dall’emergenza sanitaria, quelle che ci attendono costituiscono “una sorta di risarcimento” – come afferma il presidente nazionale del Fai, Andrea Carandini – dovuto alle decine di migliaia di persone che ogni metà marzo affluiscono nei luoghi che il Fondo apre per l’occasione con il concorso dei privati.
Con la differenza che questa “edizione speciale” (attenzione: riservata solo a chi si prenota sul sito del Fai entro le ore 15 di venerdì 26) sfrutta intelligentemente le restrizioni sociali imposte dalle norme sanitarie per tralasciare la visita di chiese, ville, castelli e tutti i luoghi chiusi, così da concentrarsi soltanto su quelli aperti: parchi e giardini storici monumentali, riserve naturali e orti botanici, boschi, foreste, campagne, alberi millenari e piante bizzarre, sentieri immersi nella natura e passeggiate nel verde urbano, giardini pubblici da riscoprire e giardini privati di solito riservati a pochi eletti.
Duecento siti sparsi in oltre centocinquanta località del Bel Paese che, anche sotto questo profilo, nulla ha da invidiare al resto del mondo. Dalla sequoia gigante sopravvissuta al disastro del Vajont nel 1963 al semenzaio che ogni anno produce il verde urbano della città di Roma, dal Giardino Pantesco in Pantelleria col suo arancio secolare potato ad ombrello e che vive solo della rugiada marina agli imponenti Giardini di Palazzo Moroni a Bergamo (“oltre quattro ettari di verde tra le mura della Città alta, omaggio del Fai alla città che ha drammaticamente sofferto l’emergenza sanitaria e che necessita di ritrovare il benessere e la bellezza che solo la natura può offrire”) gli esempi sono davvero molteplici.
“Proseguiamo nel nostro obiettivo – assicura Marco Magnifico, vicepresidente esecutivo del Fai – di riavvicinare gli italiani alla natura e al paesaggio, per riscoprire e coltivare una ‘cultura della natura’ e per favorire la conoscenza del patrimonio verde dell’Italia, a cominciare dai suoi Beni. La nostra missione si basa sul principio che ‘si protegge ciò che si ama e si ama ciò che si conosce’: comprendere la natura, dunque, si rivela il modo per educarci a proteggerla”.
Mentre l’Italia tenta faticosamente di rimettersi in piedi dopo la batosta del Covid, dalla maggior istituzione nazionale (45 anni di vita, 200mila soci, 10mila volontari, una cinquantina di Beni in proprietà aperti al pubblico) che ha lo scopo di tutelare e valorizzare il nostro patrimonio artistico e naturale giunge un messaggio preciso: l’insegnamento lasciatoci dal coronavirus non è, come spesso abbiamo sentito dire, dimenticare tutto per tornare in fretta a vivere come prima ma, al contrario, imboccare una strada nuova fatta di rispetto per il Creato per evitare di cadere in una pandemia ben peggiore. Anche immergersi con gli occhi e il cuore nella chioma fluente di un albero, come suggerisce Goethe, può servire allo scopo.