La staffilata di Salvini a Macron consente alla Meloni di rimanere coperta sulle difficoltà che presenta l’"opzione articolo 5"
Diventa ogni giorno più scivolosa la questione ucraina per i leaders europei. E Giorgia Meloni non fa eccezione. Fra le cancellerie comincia a serpeggiare il pessimismo, visto che il summit di ferragosto in Alaska non ha segnato l’auspicata svolta, e Trump comincia a dare segni evidenti di frustrazione.
Per seguire da vicino il dossier la premier ha annullato il viaggio previsto dal 31 agosto all’8 settembre che avrebbe dovuto toccare cinque Paesi dell’Indo-Pacifico e chiudersi all’Expo di Osaka. Necessario restare sul pezzo, senza distrazioni.
È un equilibrio ai limiti dell’impossibile quello che si cerca affannosamente: non solo fra territori che l’Ucraina finirà obtorto collo per cedere alla Russia, ma anche sulle garanzie da offrire a Kiev che Putin non ci riprovi fra qualche tempo.
E qui le diplomazie euroatlantiche si incartano. Meloni spinge per un meccanismo modellato sull’articolo 5 della NATO: intervento in caso di aggressione. Un congegno quasi automatico. Ma l’idea ha troppi punti deboli. Il primo è che assai difficilmente potrà essere digerito da Mosca, dal momento che sostanzialmente equivarrebbe a quell’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica che la Russia ha fatto di tutto per evitare, al punto di scatenare la guerra prima che potesse concretizzarsi. Non solo: la garanzia stile articolo 5 chi riguarderebbe: tutti i Paesi NATO (32, fra cui alcuni amici di Mosca, Orbán in testa), o solo alcuni?
Probabile che Macron e Starmer pensino alla seconda soluzione, un numero ridotto di Paesi garanti, così da poter decidere in pochi, senza il potere di veto affidato ai piccoli.
Se le cose stanno in questi termini, per l’Italia le cose si fanno complicate. Difficile politicamente starne fuori, ma arduo anche entrare a farvi parte. Perché – sempre ammesso che Putin accetti questo scenario – non ci sarebbe da stupirsi se il passo successivo fosse discutere la presenza sul campo di soldati delle potenze garanti, come “forza di rassicurazione”. Un invio di truppe che probabilmente oggi nel parlamento italiano faticherebbe a trovare una maggioranza, forse persino sotto egida ONU.

È in questo macro-scenario che s’inserisce la polemica al calor bianco scatenata da Salvini nei confronti del presidente francese Macron, considerato il più guerrafondaio dei leaders europei. L’antico adagio meneghino scagliato contro l’Eliseo (“taches al tram”) non è stato preso bene, al punto di provocare la convocazione al Quai d’Orsai dell’ambasciatrice italiana a Parigi. Ma Salvini e lo stato maggiore leghista hanno tenuto il punto: no a soldati europei in Ucraina, o – quantomeno – no a soldati italiani.
Spicca la differente reazione fra Meloni e Tajani: se il ministro degli Esteri ha stigmatizzato il collega vicepremier, facendo un controcanto stonato al Meeting di Rimini, la leader del centrodestra è rimasta in silenzio. E a volte i silenzi parlano. Fra i suoi due vice oggi sembra più vicina al leghista, e il sospetto che circola fra i palazzi semi-deserti della politica è che sotto sotto Meloni non si sia dispiaciuta dell’uscita del vicepremier. Un segnale alla Francia che il nostro Paese non intende farsi trascinare “boots on the ground”. Lanciato in maniera assai poco diplomatica, ma alla fine efficace. È la fatica di trovarsi in una terra di mezzo, di essere tuttora la leader europea più vicina a Donald Trump, come il vertice alla Casa Bianca ha dimostrato.
Del resto, sul piano interno i grattacapi non mancano. Prima della legge di bilancio (che non sarà una passeggiata) ci sarà da chiudere definitivamente il caso Schillaci, dopo che il ministro della Salute ha annullato la nomina della commissione sui vaccini, giudicando due dei suoi componenti troppo vicini alle posizioni no vax.
Meloni non ha gradito, ma l’indiscrezione lanciata da Sarina Biraghi sulla Verità che il ministro della Salute abbia goduto dell’ombrello del Quirinale (che ne avrebbe respinto le dimissioni) va tenuta presente. Porta infatti con sé un corollario: dopo le sostituzioni in corsa di Sangiuliano e Fitto, qualunque altro cambiamento nella squadra di governo per Mattarella necessiterebbe di un nuova fiducia in parlamento.
Non solo il caso Schillaci, ma anche quelli Santanchè e Calderone probabilmente per ora finiranno nel congelatore. Più avanti si vedrà, ogni ipotesi di rimpasto può attendere.
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