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Home » Esteri » GUERRA USA-CINA/ Le due facce del “Regno di Mezzo” che non devono incantare Biden

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GUERRA USA-CINA/ Le due facce del “Regno di Mezzo” che non devono incantare Biden

Leonardo Tirabassi
Pubblicato 25 Novembre 2020
Xi Jinping con Joe Biden, allora vicepresidente degli Stati Uniti, nel 2015 (LaPresse)

Xi Jinping con Joe Biden, allora vicepresidente degli Stati Uniti, nel 2015 (LaPresse)

L'errore di Trump con la Cina è stato pensare che l'America potesse muoversi sfidando tutto e tutti in un solo atto

Al di là dei cori entusiasti per i risultati delle elezioni statunitensi, è necessario capire quali saranno le prossime mosse di Biden in politica estera, dato appunto il ruolo, sì intaccato, ma pur sempre imperiale, dell’America.

Se è certo che il neopresidente democratico è il risultato, più che di proposte alternative, di un anti-trumpismo che assomiglia a una riedizione stantia di un fronte antifascista, dove dentro ci sono tutti, dai liberal cosmopoliti ai socialisti, dalle frange estremiste ai fautori dei diritti di genere più disparati, e quindi vaghe risultano le sue linee concrete future, è necessario comunque decifrare i futuri passaggi in un mondo sempre più caotico, lontano anni luce dai desideri neowilsoniani di un ordine mondiale liberale.


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Con un avvertimento, quindi. La politica di una grande potenza è fatta di costanti, di percorsi di lungo periodo, scelte operate per durare a prescindere dagli esecutori. Quello che cambia è, senz’altro, non solo la propaganda, ma la retorica, l’uso delle figure, e i toni, a cui una leadership ricorre per illustrare le proprie scelte. In secondo luogo, possono variare i metodi e i percorsi per raggiungere le mete, ma non possono cambiare le costanti, le direttrici geopolitiche, gli obiettivi strategici, salvo sconquassi epocali, il sorgere di nuove sfide come l’11 settembre, o il tramonto di antiche dispute.


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Prendiamo, ad esempio, i rapporti con la Cina. Pechino è l’avversario per eccellenza, la potenza mondiale sfidante che sta provando a diventare super potenza accanto agli Stati Uniti, e forse con il desiderio di soppiantarla. E la prova avviene su tutti i fronti, azione tanto più seria in quanto Pechino ha dalla sua i grandi numeri supportati e moltiplicati in modo esponenziale da qualità spirituali e intellettuali eccezionali. La tenacia, la pazienza, la visione e intelligenza strategica politica di lunghissimo periodo, la disciplina confuciana e poi comunista e il fattore tempo, allargato per noi occidentali quasi all’infinito. L’azione della Cina è pervasiva, si muove in tutti gli ambiti ed è continua, contando sulla sua forza economica, accompagnata da una visione mercantile della politica.


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Produttrice di merci a basso costo, di prodotti di altissima qualità hi-tech, e mercato necessario a tutti gli altri paesi. Ma allo stesso tempo, capace di durezze autoritarie accompagnate da uso della forza quando è sicura di non incontrare resistenza. Vediamo all’opera questa doppiezza cinese proprio in questi giorni. Da una parte, abbiamo la firma del Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) da parte di 15 paesi asiatici, compresi Corea del Sud e Giappone, il più grande patto commerciale del pianeta, il 30% dell’economia e della popolazione globale che raggiungerà 2,2 miliardi di persone-consumatori. Accordo che si propone di ridurre le barriere commerciali, in modo particolare quelle tariffarie, promuovendo una maggiore integrazione economica; un accordo sottoscritto dai partecipanti per motivi strettamente pragmatici.

Ma all’economia si limitano il sorriso e il lato accondiscendente della Cina. Di contro, la dura politica contro i “nemici”, contro gli uiguri, contro i dissidenti, contro l’India. E adesso contro l’autonomia di Hong Kong, che segna la fine della politica “un paese, due sistemi”. Fatto però di assoluta rilevanza internazionale, perché mostra il totale disprezzo verso gli accordi internazionali sottoscritti, in questo caso con la Gran Bretagna. Ecco la pericolosissima doppia faccia del Paese di Mezzo.

Questa è la dura realtà con cui Biden sarà costretto a confrontarsi. Dalla sua ha però due vantaggi. L’Imperium sericum, secondo la definizione dei padri gesuiti, non ha alleati strategici, se non l’insignificante Corea del Nord. È troppo grande, infida e minacciosa, in primo luogo per i paesi vicini che ne conoscono bene, e da secoli, la pericolosità. Mentre – ecco il secondo punto di forza a favore – Washington può contare, se vuole e sarà in grado, su alleati veri e potenti, dall’Europa al Giappone, dall’India alle potenze anglosassoni dell’emisfero australe. L’Unione Europea assieme agli Usa partecipano al Pil globale per il 42,1%, mentre la Cina solo per il 16,3%. L’Ue rappresenta per la Cina il più grande partner commerciale, mentre gli Usa sono per la Cina il più importante partner bilaterale. Un’azione comune di entrambe contro il Dragone costituisce una leva d’azione imponente.

Se Trump ha commesso un errore, è stato quello di pensare che l’America potesse muoversi in un mondo globalizzato sfidando tutto e tutti in un solo atto. È vero, gli alleati occidentali hanno le loro responsabilità, a partire dall’uso troppo strumentale dell’Alleanza atlantica. Ma vincere la sfida con il gigante asiatico non è una corsa solitaria. Se la Cina rappresenta da sola un paese-civiltà e ha la forza naturale dell’unità, la ricchezza della civiltà occidentale risiede proprio nelle differenze, nelle sfaccettature, nelle declinazioni di popoli, culture e nazioni, che però si devono pur ricomporre sul piano dell’azione politica davanti alle sfide globali.

“America first” non può essere sinonimo di “America alone”.


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