È lecito oggi chiedersi quanto l'Ue possa far affidamento sulle forniture di Gnl americano, visto il programma di reindustrializzazione degli Usa
Ieri il gas in Europa costava tre volte e mezzo quello americano; all’inizio dell’ultimo inverno il gas europeo costava invece più di cinque volte quello di Washington. Questo differenziale di prezzo è un grande incentivo ad aumentare le esportazioni nonostante i costi necessari per gli impianti di liquefazione.
Il gas per essere trasportato ha bisogno o di gasdotti, impossibili per le distanze tra costa orientale americana ed Europa, o di impianti di liquefazione che però sono costosissimi perché per essere messo su una nave allo stato liquido la temperatura deve scendere a -160 gradi. Uno degli ultimi impianti che verranno ultimati negli Usa costerà, al termine dei lavori, più di 25 miliardi di dollari. Nonostante questi costi, tutti in anticipo, la capacità di liquefazione americana raddoppierà nei prossimi cinque anni. Gli Stati Uniti, ricordiamo, sono diventati il primo fornitore non europeo dell’Ue dopo il conflitto in Ucraina e le sanzioni imposte alla Russia.
Date queste premesse la scommessa più ovvia sarebbe quella di contare sul gas americano per sostituire le forniture russe, che l’Europa si appresta a chiudere, e come garanzia per l’instabilità politica in Medio Oriente. Alcuni dei più grandi investimenti al mondo nel settore gas oggi avvengono in Qatar, che però è di fronte all’Iran e dall’altra parte dello stretto di Hormuz. Più il quadro politico in Medio Oriente peggiora più le forniture americane appaiono stabili e quindi desiderabili anche se più costose di altre.
La priorità economica degli Stati Uniti è creare le premesse per una reindustrializzazione o almeno per il rimpatrio di alcune produzioni ritenute strategiche. È per questo fine che è iniziata la guerra commerciale e sono stati introdotti i dazi. La strategia americana si poggia su altri pilastri tra cui la deregolamentazione e l’abbassamento delle tasse.
Una delle condizioni necessarie perché questo processo di reindustrializzazione si avveri e perché i suoi effetti inflattivi rimangano sotto controllo è l’accesso a forniture energetiche economiche e affidabili. Questo significa il ritorno del gas, del petrolio e del carbone e l’abbandono delle rinnovabili come scelta privilegiata. C’è ovviamente anche il nucleare che però richiede tempi molto lunghi.
Più aumenta la capacità di liquefazione, più il mercato americano si apre ai mercati internazionali, alla sua domanda e anche ai suoi prezzi. Oggi non c’è contraddizione tra l’aumento delle esportazioni di gas e dei profitti relativi e le esigenze della reindustrializzazione e del potere d’acquisto americani. In caso di crisi energetica si potrebbe però porre la scelta tra i profitti derivanti dalle esportazioni e la competitività del sistema americano e il benessere delle sue famiglie.
L’America, come al culmine della crisi energetica europea del 2022, potrebbe considerare la possibilità di chiudere i rubinetti per schermare le famiglie e le imprese americane dall’impennata dei prezzi internazionali. Allora la possibilità non si materializzò complice un inverno eccezionalmente mite.
Gli Stati Uniti non sono un Paese in via di sviluppo che produce gas che non consuma. Ritorniamo quindi alla domanda posta dall’ad di Total a Trump nell’ultima edizione del forum di Davos. Il manager francese chiedeva al Presidente americano cosa pensasse dei rischi di rialzi dei prezzi domestici che le infrastrutture per l’export di gas ponevano; soprattutto chiedeva un impegno a garantire le forniture. Si sottintendeva nel caso in cui i prezzi in America fossero saliti troppo.
on il passare dei giorni e le incognite sulla crisi iraniana queste preoccupazioni tornano d’attualità.
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