Il Governo ha approvato il Documento di finanza pubblica, che sostituisce il Def. Almeno tre incognite pesano sui conti dell'Italia

Quali previsioni si possono fare nel bel mezzo di una tempesta? Se si trattasse di una tempesta meteorologica sarebbe ragionevole ipotizzare di prevedere la sua cessazione in un arco temporale circoscritto, pur non sapendo con precisione i danni che essa potrebbe provocare. Ma in questo caso la tempesta è economica e trae origine da fattori diversi, non omogenei e non quantificabili in base a precedenti esperienze studiate dalla storia economica.



Com’è possibile, dunque, formulare previsioni economiche, come richiesto al Governo nell’ambito del Documento di finanza pubblica (Dfp), che ha preso il posto del Def e che rappresenta la prima tappa della lunga procedura per la definizione del bilancio pubblico per il prossimo anno?

Quali effetti macro possono produrre sull’economia italiana i dazi consistenti che l’Amministrazione Trump ha annunciato, stabilito e quasi immediatamente sospeso per tre mesi? E i progetti europei di crescita della spesa per la difesa? E, infine, il ritorno, probabile ma non certo, a regole europee di finanza pubblica più rigide rispetto a tutto il lungo periodo del Covid e del post-Covid?



Troppe incognite da troppi fronti stavano rendendo la scrittura del Dfp un esercizio quasi totalmente aleatorio e sembra dunque una scelta corretta quella fatta dal Governo di limitarne portata, orizzonte temporale e contenuti.

In linea di principio, il documento approvato mercoledì dal Consiglio dei ministri, che è il primo dell’anno sulla dinamica dei conti pubblici e le previsioni della crescita, avrebbe dovuto contenere anche le indicazioni sulle politiche desiderate in termini di contenimento della spesa, correzione dello scenario tendenziale di finanza pubblica e stabilizzazione del livello del debito rispetto al Pil. Ma data la tempesta in corso, e la discutibilità di qualsivoglia traiettoria, il Governo ha optato per un approccio minimalista, evitando di formulare scenari sul tema di gran lunga più spinoso: quello degli effetti dei dazi annunciati da Trump e presto adottati e quasi subito sospesi.



Neppure gli effetti del piano di riarmo europeo, annunciato dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, sono presi in considerazione. Anche lo scenario descritto si limita a quello tendenziale, senza inoltrarsi nelle sabbie mobili delle azioni correttive. Questa scelta susciterà sicuramente critiche da parte delle opposizioni parlamentari e forse anche perplessità nelle istituzioni destinatarie del documento o che hanno compiti di vigilanza, tuttavia appare la più ragionevole. È, potremmo dire, un Dfp alla Wittgenstein: “Quanto può dirsi si può dire chiaro e su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.

E quello che il Dfp dice chiaramente è che la crescita economica sarà piccola, solo la metà di quella prevista nello scorso autunno: lo 0,6% nell’anno corrente, rispetto all’1,2% indicato nello scorso mese di ottobre, destinato a un lievissimo ritocco verso l’alto nel prossimo biennio: lo 0,8% sia nel 2026 che nel 2027.

Oltre alle due incognite dei dazi, in senso restrittivo, e del piano di riarmo, in senso espansivo, una terza è legata all’attuazione della riforma del Patto di stabilità e crescita, introdotta nell’aprile dello scorso anno e in base alla quale, trascorso l’anno di transizione, i Paesi membri con finanza pubblica problematica dovrebbero adeguarsi alla correzione dei loro conti pubblici, e soprattutto tenere sotto controllo la spesa, secondo i piani di medio-lungo periodo adottati, per l’Italia con durata di sette anni. Ma come si possono rispettare piani predefiniti di lungo periodo in uno scenario macroeconomico mondiale divenuto così incerto già nel brevissimo, e tale da indurre a fare previsioni prudenti solo biennali, tagliando il consueto terzo anno dal Dfp?

Da un lato, pertanto, le nuove regole europee, definite in un momento di relativa tranquillità, chiedono di estendere l’orizzonte previsionale e degli impegni di finanza pubblica sino a sette anni, mentre nello stesso tempo la crescente incertezza mondiale ha drasticamente accorciato il periodo di relativa visibilità macroeconomica e comunque steso un velo di foschia sul medesimo. In questo contesto l’unico aspetto di relativa tranquillità è che la finanza pubblica è destinata a rimanere sotto controllo, con un rapporto disavanzo/Pil prossimo all’obiettivo del 3%: il 3,3% nel 2025, confermando il dato già indicato nel Piano strutturale italiano di medio termine, per poi ridursi al 2,8% nel 2026 e al 2,6% nel 2027.

Meno positive invece le previsioni sul rapporto debito/Pil, almeno sino a quando non svaniranno gli effetti sulla cassa dei crediti sorti a seguito dei bonus dell’edilizia, già contabilizzati negli scorsi esercizi sul disavanzo in base al criterio di competenza. In questo caso la previsione del Def è che il rapporto debito/Pil salga ancora nel 2026, al 137,6% rispetto al 136,6% di quest’anno, per poi stabilizzarsi al 137,4% nel 2027. Questa però è l’eredità ben nota delle scelte errate fatte durante il Covid.

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