Nella storia di Mauro Prenci, l’esperienza di non essere definiti dalla malattia. E il dono di una amicizia, i Quadratini, che svela chi siamo
“Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita”. Questa frase di San Gregorio Nazianzeno la feci riportare sulla lapide di mia mamma, morta di tumore nel 2021, senza rendermi conto che più che servire a lei era necessaria per me e rappresentava, inconsciamente, la frase che mi avrebbe poi permesso di non lasciarmi incastrare nel meccanismo dei “brutti pensieri” (come li chiamano gli psichiatri per chiederti se hai intenzioni autolesioniste o suicidarie) che la depressione può portare con sé.
Oggi ho ancora più consapevolezza di quanto sia di capitale importanza per me questa frase e me ne sono accorto quando una nostra amica si è tolta la vita gridando e cercando un senso per e dell’esistenza.
Quando ho letto di Laura Santi (per la quale tra l’altro insieme ai Quadratini abbiamo pregato), che ha lottato per poter ottenere la libertà di porre fine alla sua vita, ho pensato che probabilmente senza la certezza di essere amato e voluto così come sono e nelle condizioni in cui sono, senza la certezza di non essere una creatura finita, un uomo finito, anche per me la vita non avrebbe senso, non lo avrebbe perché tutto sembra cospirare contro me stesso. Anch’io avrei potuto paventare l’ipotesi di farla “finita” avendo una malattia che mi accompagna da tanti anni (ho “festeggiato” il trentennale della mia malattia l’anno scorso), impedendomi di vivere una vita normale.
Allora capisco che il problema non è riuscire a conquistare una libertà che permetta legalmente di porre fine alla propria esistenza, ma trovare qualcosa o qualcuno che risponda al bisogno infinito che siamo, al bisogno infinito di essere amati. E quando parlo di essere amati non mi riferisco a qualcosa di campato per aria, tipo spiritelli che si aggirano nella mente già malata (parlo di me, chiaramente) ma a un amore che può arrivarti da persone fisiche che hai attorno a te o che spesso vedi solo tramite zoom e/o WhatsApp, come è accaduto a me nell’esperienza con i Quadratini.
Vorrei raccontare un po’ di me, altrimenti le mie affermazioni potrebbero sembrare teoriche.
Io ho avuto la Grazia di incontrare la presenza “viva” di Cristo nell’incontro con il Movimento di Comunione e Liberazione a 15 anni, che mi ha provocato (seppur in maniera sicuramente molto ingenua, ma con quella genuina baldanza giovanile – io che ero timido e riservato) nel cercare di dare risposta alle domande che avevo: chi sono? cosa desidero per me e per chi mi è caro? cosa, infine, può rendermi felice?
C’era, quindi (in maniera magari ingenua e fors’anche un po’ moralistica) in me, già un embrione di consapevolezza di un amore a me e alla mia vita in quel luogo e in quella compagnia incontrata e vissuta dove scoprivo la bellezza dell’incontro con Cristo vivo e presente.
Poi, negli anni, l’aumento delle responsabilità lavorative, il pensiero di dover fare tutto nel miglior modo possibile, di essere perfetto, di risolvere ogni problema, di essere all’altezza di chi aveva frequentato l’università o aveva avuto la fortuna di vivere in una realtà economica e sociale importante, diversamente da me che vivevo in un paesino di una provincia già povera di suo, mi hanno messo una pressione addosso che è diventata insostenibile.
Non c’era margine di errore, non potevo permettermi di fallire. Ogni incarico diventava un test per dimostrare il mio valore, ogni ostacolo una minaccia che non potevo ignorare. Ho cominciato con un forte esaurimento nervoso e poi è arrivata la depressione. La cosa più frustrante era che all’esterno sembrava tutto normale. Nessuno (a parte mia moglie) si accorgeva di quello che stavo passando, e io stesso, per molto tempo, ho cercato di nasconderlo.
Mi imponevo di andare avanti, di fare quello che andava fatto. Ma, dentro, la mia mente era diventata una trappola. Ogni pensiero girava su sé stesso, ogni errore, anche minimo, si trasformava in una condanna: “Non sei abbastanza”, “Hai sbagliato di nuovo”, “Non cambierà mai nulla”.

Sono cominciati i primi ricoveri, che mi hanno portato a prendere maggior consapevolezza dell’abisso in cui ero sprofondato e quindi riprendere la psicoterapia, ma in particolare hanno fatto riemergere in me quelle domande che da ragazzino imberbe avevo e che, sempre per Grazia e non per merito mio, riconoscevo ancora allora (negli anni dei ricoveri) vere per me.
La depressione non è una malattia che si può semplicemente superare e lasciarsi alle spalle – resta sempre sullo sfondo, pronta a riaffacciarsi. Ogni giorno è una battaglia, a volte più leggera, a volte quasi impossibile da affrontare.
Infatti è più di un anno che “l’anaconda” mi ha ripreso voracemente tra le sue spire, eppure proprio quest’anno sono accaduti fatti per me miracolosi: la vicinanza di tante persone (anche se io le evito!) e in particolare l’esperienza dei Quadratini, di cui avevo sentito parlare e che ho iniziato a frequentare da metà marzo (poi fine marzo e tutto il mese di aprile in clinica!).
Posso a ragion veduta dire che per la seconda volta la Grazia mi ha permesso di re-incontrare la presenza “viva” di Cristo e di sentire, direi quasi “fisicamente”, la Sua carezza su di me, attraverso questa compagnia di persone che, pur avendo tante di esse una “scadenza prefissata” dal male, con il sorriso ma ancor più con la letizia – che non è, non può essere umana (altrimenti sarebbero tutti “schizzati” come me, per usare una definizione di don Eugenio), ma solo frutto di “qualcosa”, anzi di “Qualcuno” più grande della propria umanità sfregiata dal dolore – vivono la propria malattia.
E poi, per onestà verso di me, devo dire che ci ho messo qualcosa di mio: accettare che la mia malattia non mi determina, che io non sono la mia malattia, che anche se non riesco ad uscire di casa, se non riesco a leggere, a godere pienamente della presenza del mio primo nipotino, a non dormire più di due/tre ore a notte, io posso vivere e che testimoni della Sua bontà ne trovo sempre, basta aprire gli occhi e non rinchiudermi nel mio dolore, nella mia impotenza.
Questo per me non vuol dire che la malattia non mi causa angoscia e dolore; infatti nei prossimi giorni sarò nuovamente ricoverato, dovrò ancora affrontare la terapia TEC (acronimo non dire elettroshock) ed entrare in un ciclo di cure semi-sperimentale sempre basato sugli elettroshock, senza dimenticare la pesante terapia farmacologica che assumo, ma non ha vinto lei; non mi fa desiderare la libertà di porre fine a questo strazio, ma mi fa gridare a Dio di rispondere al mio desiderio di pienezza che sento vivo in me, mi fa gridare di togliermi quei brutti pensieri, che non sono espressione di libertà, ma la prigione di una mancanza di senso e di una solitudine nella quale spesso a causa della malattia sono costretto a vivere.
È banale, mi si dirà, ma c’è bisogno di una compagnia e per me la compagnia quotidiana dei Quadratini ogni giorno mi fa scoprire e/o riscoprire che la vita merita di essere vissuta fino in fondo, qualsiasi sia la condizione in cui ci si trovi.
Tante volte la stanchezza e la disillusione mi porterebbero a non collegarmi all’appuntamento quotidiano con i Quadratini, ma da quando sono entrato dentro questa amicizia un po’ sui generis, non sono mai mancato a questo appuntamento. Qui trovo un’umanità sofferente ma non arrabbiata, e se è arrabbiata lo dice, ma non manca comunque a questo appuntamento.
Per me è come una goccia che, lentamente somministrata ad una persona disidratata, poco alla volta, con tempo e pazienza, può recuperare non tanto la forma fisica ma sicuramente una mente lucida che gli permetterà, se e come il fisico lo permetterà, di riprendersi anche fisicamente.
E se anche non fosse così, siamo pur consapevoli che il fisico da solo non basta, se non c’è un cuore vivo e pulsante; e questo cuore vivo e pulsante lo si ritrova, per credenti e non credenti, sempre dentro una compagnia di amici che assieme a te volge lo sguardo oltre l’apparenza.
Mauro Prenci (Prencisvalle)
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