Giulio Sapelli, nel suo recente articolo sul Sussidiario, definisce l’attuale fase dell’Unione europea “un enigma”, contrassegnato da una crescente divisione al suo interno.
Due viaggi sono segno di questa frammentazione: la visita di Emmanuel Macron a Biden e il viaggio di Olaf Scholz a Pechino. Due eventi, in effetti, che pongono in evidenza la diversa impostazione geopolitica tra due Stati leader dell’Unione e che minacciano di disgregarla, perché a quella geopolitica si connettono molte altre questioni, innanzitutto quelle economiche.
Se questa divisione si radicalizzasse, l’Ue si frantumerebbe definitivamente, espandendo il ruolo della Nato al di là della già imponente funzione militare. Di “resurrezione della Nato” parla anche Nicola Berti nel suo articolo, dato “l’avvitamento centripeto” dell’Ue. Alcuni eventi sembrerebbero affrettare la fine dell’Ue attuale e Berti cita il primo incontro svoltosi a Praga della Comunità politica europea, con la partecipazione di 44 Stati, tutti i Paesi europei tranne Russia e Bielorussia. Un’iniziativa partita da Macron per “consentire una cooperazione più profonda con i Paesi democratici in tutto il continente”. Un confronto basato su accordi tra Stati, quindi a geometria variabile, che potrebbe diventare l’alternativa ultima all’Ue, insieme alla Nuova Nato che si sta progettando a Washington.
Tuttavia, anche la Nato si presenta multiforme a seguito di interessi geopolitici diversi, spesso contrastanti, tra gli Stati membri. Una difformità resa oggettivamente evidente dalla guerra in Ucraina, non solo per simpatie politiche o storiche. La minaccia russa, anche qui con reminiscenze storiche, è sentita maggiormente nei Paesi dell’Europa orientale e del Nord, mentre i Paesi del Sud sono più esposti alle minacce provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Inoltre, agli Stati Uniti non basta più l’attuale Nato, nonostante sia da essi dominata, dato che la loro attenzione si sta allontanando dall’Atlantico per concentrarsi sul Pacifico e il futuro scontro con la Cina.
All’interno della Nato, la componente più critica è data dalla Turchia di Erdogan. Il presidente turco gode attualmente di grande attenzione per il ruolo che si è ritagliato di possibile “paciere” tra Russia e Ucraina, faccia colloquiante di una Nato per il resto “abbaiante”, per parafrasare il Papa. Una funzione che gli riesce di esercitare per una politica estera definibile ambigua, più da “non allineato” che da membro della Nato.
Erdogan è molto abile nel giocare su più fronti: solidi rapporti con Mosca, ma fornitore di droni all’Ucraina; antagonista di Riyadh per la prevalenza nel mondo sunnita, ma non dello sciita Iran, almeno per quanto riguarda la guerra contro i curdi; fiancheggiatore, in un’ottica neo-ottomana, dell’Azerbaigian sciita contro l’Armenia, alleata della Russia.
Erdogan non esita a ricorrere a “trattative” colorate di ricatto, come nel caso migranti nei confronti dell’Ue. Qualcosa di simile sta avvenendo per la domanda di adesione di Svezia e Finlandia alla Nato. Per sbloccare il veto turco, la Svezia ha dovuto accettare di consegnare un rifugiato curdo, la Finlandia sta ancora trattando sulla richiesta di cancellare il bando finlandese alla vendita di armi alla Turchia.
Il punto più critico si trova nel Mediterraneo, lontano quindi dall’epicentro Nato, e coinvolge il rischio di uno scontro diretto tra due membri dell’Alleanza: la Turchia e la Grecia. La storia dei due Paesi è contrassegnata da guerre e contrapposizioni, continuate fino ad oggi con il continuo insorgere di nuove motivazioni. Come nel confronto navale del 2020 attorno a Cipro, per fortuna risolto dalla minaccia di sanzioni da parte dell’Ue. La ragione è la pretesa di Ankara su zone marittime presumibilmente ricche di idrocarburi, che Grecia e Cipro ritengono in zone di loro appartenenza. Un contrasto che a suo tempo ha coinvolto anche Francia e Italia.
Da qualche mese è però in corso uno scontro molto più pericoloso, con l’accusa alla Grecia di installare basi militari su isole nell’Egeo fronteggianti le coste turche, violando precedenti trattati. Si tratta del Trattato di Losanna del 1923 e degli Accordi di Parigi del 1947, dove fu ceduto alla Grecia il Dodecaneso, dal 1912 occupato dall’Italia a seguito della guerra italo-turca. Contrariamente a quanto sostiene la Turchia, la Grecia dichiara che la presenza militare in queste isole, parte del suo territorio statale, non viola i trattati.
Entrambi i contendenti hanno coinvolto Nato, Ue e Onu senza grandi risultati e all’inizio di dicembre sia Erdogan che il suo ministro degli Esteri hanno fatto dichiarazioni estremamente dure, prospettando perfino un intervento militare. A sua volta, all’inizio di settembre la Grecia aveva accennato al pericolo che la questione degenerasse in una nuova Ucraina, questa volta nel Mediterraneo. Dove peraltro esiste già una simile situazione con l’occupazione militare turca di Cipro Nord e uno Stato non riconosciuto internazionalmente. Un qualcosa che ricorda le repubbliche autoproclamate del Donbass.
Appare molto azzardato pensare la Nato come uno strumento per risolvere i problemi dell’Unione europea, con buona pace di Washington.
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