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Home » SIRIA/ Perché chi criticò G.W. Bush in Iraq adesso tace?

SIRIA/ Perché chi criticò G.W. Bush in Iraq adesso tace?

Luca Volontè
Pubblicato 30 Agosto 2013
obama_microfono_phixr

Barack Obama

In passato si criticò giustamente G.W. Bush per la decisione di intervenire in Iraq. Oggi però c’è un presidente Usa molto più guerrafondaio dei predecessori. LUCA VOLONTE'

Non possiamo tacere la gravità delle conseguenze di un possibile intervento unilaterale degli Usa e del Regno Unito in Siria. Proprio nei giorni in cui gli ispettori stanno raccogliendo i dati, sotto il fuoco dei ribelli, il presidente Usa decide di intervenire? Le nuvole sono cariche di pericoli che ingrigiscono l’orizzonte ad ogni ora che passa. Le vere motivazioni quali sarebbero? Umanitarie o, invece, la sola volontà di non perdere la faccia, dopo che Francia-Uk-Usa mesi orsono hanno deciso unilateralmente di fornire armi ai rivoltosi? Oppure ragioni di politica interna o prestigio internazionale, ormai smarriti dopo le folli decisioni e altrettanto assurde conseguenze degli interventi in Libia?


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Nel Mediterraneo gli Usa non vivono e non mi capacito della assoluta ignavia della Ue, incapace sia di seguire la prudenza della Germania in questo campo, sia di dar retta alla posizione dei propri Paesi del Mediterraneo, Italia in primis. Non c’è dubbio che i Paesi del Golfo stiano spingendo gli Usa all’intervento, né che ci siano amplissime ragioni di carattere interno e internazionale che spingono all’intervento per recuperare un prestigio che per colpa della amministrazione Obama si è perduto. Oggi una guerra serva per nascondere o mandare in soffitta la più globale scandalosa delle violazioni dei diritti alla privacy di milioni e milioni di cittadini di tutto il mondo. Il silenzio su questa vicenda è una prova della malafede e della irresponsabilità dei governi europei, nessuno dei quali (tranne quello tedesco) ha aperto dei veri contenziosi con l’amministrazione Usa.


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Ora la guerra, con le sue ancor più devastanti conseguenze nella Siria a cosa porterebbe? I milioni di profughi rientrerebbero in pace? No. I milioni di cristiani potrebbero tornare nel Paese senza timore di essere violentati o uccisi? No. Si avvierebbe un processo democratico? No. Aumenterebbe la stabilità dell’area e il rispetto dei diritti umani delle minoranze, visti gli esempi in Iraq? No. Il Mediterraneo sarebbe un mare più sicuro e i paesi confinanti, Libano e Israele in primis più in pace? No. Se tra qualche giorno, gli ispettori verificato l’uso delle armi chimiche, dicessero che non è certa la provenienza ma entrambe le parti in conflitto potrebbero averle usate, sarebbe rispettato il principio di “precauzione”? No. L’esempio egiziano, ennesima prova della scarsa conoscenza e lungimiranza della attuale amministrazione Usa, dimostra che è possibile attendersi l’elezione di un uomo vicino all’occidente? No. Dunque, a chi giova affrettare un intervento unilaterale Usa se non ad interessi che non sono legati minimamente alla popolazione del Paese ma ad altro o ad altri Paesi? 


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Si criticò, giustamente, G.W. Bush per la decisione di intervenire in Iraq, dopo la discussione che tutti ricordiamo in cui Colin Powell mostrò prove false su armi chimiche mai trovate. Oggi, senza nemmeno quella messa in scena, c’è un presidente americano molto più guerrafondaio dei predecessori che ritiene di essere divenuto il “padrone del mondo”. C’è un unico Paese oggi ragionevolmente favorevole alla guerra contro Assad, la Turchia. Non condivido le dichiarazioni del ministro Davotoglu, ma capisco che la Turchia sta facendo fronte a milioni di profughi senza l’aiuto concreto di nessuno ed è perciò comprensibile che la Turchia abbia desiderio di chiudere al più presto questa situazione. Non condivido, ma capisco.

Solo una visione molto limitata della situazione può convincere gli osservatori anglo-americani che un bombardamento dal mare risolva il conflitto siriano e invece non lo estenda ed aggravi enormemente. L’Onu in questi giorni ha una occasione storica, l’ultima di questo secolo appena iniziato, fermare la guerra con forza e impedire l’aggravarsi del conflitto.


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