Nel giugno del 2008, con un decreto legge, il governo Berlusconi introduceva la cosiddetta Robin tax, che prevedeva l’aggravamento dell’imposizione sul reddito delle imprese del settore petrolifero ed energetico. L’addizionale era prevista dal comma 16 dell’articolo 81, nel Titolo IV intitolato “Perequazione tributaria” del citato decreto. Da qui il riferimento a Robin Hood, per il dichiarato intento di colpire i ricchi profitti aggiuntivi delle società in oggetto derivanti dalla favorevole congiuntura. Inizialmente la norma doveva coinvolgere anche gli extra profitti delle banche, ma nei successivi commi che riguardano il sistema bancario non se ne trova traccia.
Nel 2011 erano poi state apportate modifiche, includendo anche le fonti rinnovabili e portando l’aliquota dal 5,5% al 10,5% per tre anni, per poi scendere al 6,5% nel 2014. La norma era stata impugnata da distributori di energia emiliani e rinviata alla Corte Costituzionale dalla Commissione tributaria di Reggio Emilia. Ieri si è appreso che la Consulta ha dichiarato la norma illegittima, sia pure con effetto non retroattivo. La retroattività avrebbe senza dubbio favorito le imprese coinvolte, ma il recupero delle imposte da restituire avrebbe costretto a un inasprimento dell’imposizione generale che, secondo la Corte, avrebbe provocato sperequazioni superiori a quelle che si volevano riparare.
Questa decisione sembra coerente con i criteri generali del dispositivo della Consulta, che non obbietta alla possibilità di un’imposizione straordinaria e limitata solo ad alcuni settori, né ritiene improprio l’uso in tal caso del decreto legge. Le critiche della Corte riguardano la struttura interna della disposizione, che risulta contraddittoria rispetto all’obiettivo dichiarato dallo stesso governo.
Innanzitutto, un’imposta che doveva colpire extraprofitti derivanti da un evento contingente, il rialzo dei prezzi del petrolio, si è trasformata in un’imposizione permanente, pur in presenza di un calo dei prezzi della materia prima. Inoltre, l’imposta si configurava come un’addizionale sui profitti aggiuntivi, ma veniva applicata all’intero profitto di impresa. Infine, per mantenere l’aspetto perequativo dell’imposta, la norma imponeva alle imprese l’obbligo di non trasferire il maggiore onere sui consumatori, ma i meccanismi di controllo previsti si sono rivelati insoddisfacenti, rendendo vano l’obiettivo di una maggiore perequazione sociale verso le classi più colpite da possibili aumenti dei prezzi.
La Corte non lo dice, ma le sue critiche rendono evidenti come la vera ratio della disposizione fosse l’aumento delle entrate fiscali per far fronte alle richieste dell’Unione europea e ai buchi nel bilancio statale. Il problema ora si apre per il governo Renzi, anche se i danni saranno inferiori rispetto al passato, essendosi più che dimezzate gli introiti dell’addizionale, ma si parla comunque di cifre verso il miliardo di euro da recuperare. La norma precedente potrebbe essere rieditata così da rispettare il dettato costituzionale, cosa del tutto possibile, ma è venuta a mancare la premessa stessa per l’imposta. Il drastico calo del prezzo del petrolio sta mettendo a dura prova i bilanci delle società operanti nel settore, ben lontane dal produrre “profitti aggiuntivi straordinari”.
L’eliminazione dell’imposta, però, aumenterà i profitti, o ridurrà le perdite, delle società interessate, le maggiori delle quali sono partecipate dallo Stato al quale l’aumento dei dividendi percepiti consentirà di bilanciare almeno in parte il minor gettito fiscale.
Non è da escludere che Renzi e Padoan stiano pensando all’aumento delle imposte sui combustibili per i trasporti, magari approfittando del calo dei prezzi ai distributori in conseguenza della crisi petrolifera. Anche se il fatto che accisa e Iva già rappresentano più della metà del prezzo dei combustibili non li preoccupasse, come non ha preoccupato i loro predecessori, sarà bene tengano presente che i consumi stanno diminuendo, malgrado il calo dei prezzi, e che un inasprimento dell’imposizione non porterebbe grandi vantaggi fiscali e sarebbe un ulteriore colpo alla nostra economia,
Forse è il caso di tirare fuori dal cassetto lo studio di Cottarelli e smettere di chiamarlo pomposamente “spending review”: il suo vero nome è, e non può che essere, “taglio delle spese inutili”, ed è giunta l’ora di farlo seriamente.