La chiusura della nostra ambasciata a Tripoli, ultima rappresentanza diplomatica occidentale rimasta in Libia, è un altro segnale sulla gravissima situazione della nostra ex colonia. L’attenzione è centrata sulla presenza stabile dell’Isis a Derna e la sua avanzata su Sirte, a poche centinaia di chilometri dalla Sicilia. Tuttavia, per quanto riguarda i risvolti economici della tragedia libica, il disastro è in corso ormai da qualche anno, dalla sciagurata guerra del 2011, che ha abbattuto un dittatore ma ha dato luogo all’attuale guerra civile in una situazione di completa anarchia. I maggiori danni economici sono per l’Italia, cioè lo Stato che ha più interessi in quell’area. Probabilmente alla base della guerra scatenata dalla Francia di Sarkozy, cui il governo Berlusconi si unì in modo avventato, vi era proprio il tentativo di scalzarci da questa posizione. Ora le conseguenze vengono pagate da tutti, in particolare dai libici “liberati” dalla democratica coalizione sponsorizzata dal Nobel per la Pace Obama.

Quando si parla di Libia si pensa subito a petrolio ed Eni: l’Italia importava circa un quinto del petrolio e un decimo del gas da quello che una volta era stato definito “scatolone di sabbia”, quando si dice la lungimiranza. Prima della caduta di Gheddafi, la Libia produceva 1,6 milioni di barili di petrolio al giorno, in questo periodo la produzione è scesa a meno di un quarto, ma l’incostanza delle quantità estratte rendono la situazione economica ancor più rischiosa.

Dalla metà dell’anno scorso, a seconda dell’andamento della guerra civile in corso, le quantità estratte sono scese fino a 150.000 barili al giorno, per risalire a quasi un milione nello scorso ottobre, per poi ridursi di nuovo dopo gli ultimi attacchi che, eterogenesi dei fini, hanno coinvolto anche impianti della francese Total. L’ente nazionale idrocarburi libico ha dichiarato che se questi attacchi dovessero continuare bloccherà tutte le operazioni di estrazione. La diminuzione della produzione libica potrebbe avere effetti paradossalmente positivi sui prezzi del petrolio: la Libia, come membro dell’Opec, dovrebbe attenersi alle disposizioni saudite di non ridurre la produzione, ma anche Riyad non può far niente nel caso della Libia. Non a caso, le quotazioni del petrolio sono aumentate dopo gli ultimi attentati.

Vi è però un altro aspetto da considerare, particolarmente pericoloso per l’avanzata degli islamisti: il traffico illegale di petrolio, da sempre esistente e tacitamente tollerato anche da Gheddafi. In Iraq l’Isis sta sfruttando questo traffico per finanziarsi, vendendo petrolio a prezzi più bassi del mercato, attraverso canali sedicenti clandestini, perché è difficile che questo traffico non sia noto, per esempio, alle autorità turche. L’avanzata dell’Isis, o suoi alleati, in Libia rende questa prospettiva molto minacciosa e gli Stati confinanti, Tunisia, Algeria ed Egitto, si stanno coordinando per combattere questo contrabbando e ridurre così i finanziamenti alle fazioni combattenti.

I danni economici per le compagnie petrolifere operanti in Libia, a partire dalla nostra Eni, sono molto forti, ma per l’Italia i danni non si fermano qui. Come tutte le ex potenze coloniali, l’Italia ha mantenuto forti rapporti con la Libia un po’ in tutti i campi e molte sono le imprese italiane con piani di investimento in Libia. In particolare Berlusconi aveva buoni rapporti con Gheddafi, visti con disapprovazione dagli altri nostri alleati, che pure facevano affari con il rais; un po’, insomma, come succedeva per i suoi rapporti con Putin, anche se gli affari maggiori con la Russia li faceva la “pura” Germania. Infatti, ora stiamo subendo rilevanti perdite su entrambi i fronti, nell’indifferenza dei nostri “alleati”, sempre pronti a presentare i conti ma restii a pagarli.

Nostre imprese sono presenti in Libia in vari settori, dai trasporti alle costruzioni, dalle telecomunicazioni all’impiantistica, dalla meccanica industriale all’agricoltura, dato che una priorità per la Libia era, e rimane, l’uscita dalla “monocultura” del petrolio e del gas. Si tratta di investimenti pluriennali per parecchi miliardi di euro ora a rischio, se non già persi, con i relativi posti di lavoro.

Una delle vittime della tragedia libica è la cosiddetta “autostrada dell’amicizia”, lunga 1700 chilometri dal confine della Libia con l’Egitto a quello con la Tunisia, che avrebbe richiesto vent’anni di lavoro e un investimento di tre miliardi di dollari, la cui costruzione era riservata a imprese italiane. Questa autostrada era la maggior realizzazione in quel piano di 5 miliardi di dollari con cui, nel 2008, il governo Berlusconi aveva chiuso la vertenza con la Libia di Gheddafi per i danni di guerra causati dall’occupazione italiana. Per converso, attraverso il suo fondo sovrano, anche la Libia entrò in alcune società italiane, per esempio in Unicredit, Finmeccanica e la stessa Eni.

Nell’accordo con Gheddafi era inclusa la collaborazione alla lotta contro l’immigrazione clandestina: anche sotto questo profilo, non pare proprio che la rivoluzione portata dai bombardamenti franco-anglo-americani abbia migliorato la situazione. E il conto più salato viene pagato da libici e migranti, insieme agli italiani.