Il dibattito sul lavoro nel nostro Paese ruota attorno a fattori negativi che caratterizzano i rapporti produttivi. Precarietà e bassi salari sono le caratteristiche che descrivono la situazione per la maggior parte dei commentatori. Una scia di pseudo scioperi generali e la battaglia del populismo di sinistra per il salario minimo, sommati con il ritorno a uno stato felice fatto di contratti a tempo indeterminato e divieto di licenziamento, sono la piattaforma di chi vede il bicchiere sempre vuoto.
La settimana scorsa ci ha pensato la più autorevole rivista settimanale di economia, l’Economist, a indicare che forse la realtà è completamente diversa. Anziché vedere un mondo di miseria del lavoro indica che si è aperta la stagione d’oro del lavoro, un periodo in cui diventare lavoratore conviene anche senza gli stimoli e i sostegni al mercato da parte dei poteri politici.
Per cogliere il mutamento epocale in corso il settimanale ci ricorda qual era la situazione dopo la crisi finanziaria del 2008. La ripresa dell’economia fu lenta e ancora a metà del decennio successivo crescevano solo le occasioni di lavoro per occupazioni con basse qualifiche e con salari molto bassi. Cresceva la diseguaglianza dei redditi nella società nel suo complesso e si approfondivano anche le differenze all’interno delle categorie dei lavoratori dipendenti. La disoccupazione è rimasta a lungo sopra il 7% in tutta l’area dei Paesi sviluppati. La forza contrattuale dei lavoratori era ridotta e le politiche seguite, per paura di fiammate inflattive, prevedevano un lungo periodo per poter gestire un sostegno alla domanda di beni.
Nel giro di pochi anni la situazione si è ribaltata. La scarsità di lavoratori dovuta agli andamenti demografici, le politiche espansive seguite da tutti i Governi nel periodo post-Covid e gli effetti sulla produttività dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione portano a una diffusa crescita dei salari. Sono queste trasformazioni in corso nel funzionamento del mercato del lavoro che portano all’apertura di una età d’oro per il lavoro.
La scarsità di manodopera trova nel calo demografico di molti Paesi industrializzati la ragione principale. I casi di servizi che devono tagliare parte dell’offerta per mancanza di lavoratori si stanno diffondendo. La diminuzione delle corse dei trasporti pubblici per mancanza di autisti è presente a Milano come in molte città tedesche. La difficoltà denunciata dalle imprese per trovare nuovi candidati a coprire posti di lavoro vacanti è cresciuta di molti punti in tutti i Paesi Ocse.
Oltre agli effetti del calo demografico pesa la situazione internazionale. Molte catene di produzione che erano state delocalizzate sono state riportate nei Paesi di origine. La stessa Cina presenta problemi demografici e non è più il paradiso delle delocalizzazioni delle produzioni occidentali.
Il processo di trasformazione delle produzioni per sostenere la transizione ambientale, unita alle politiche di sostegno della rilocalizzazione delle industrie, porta i Governi ad attuare politiche economiche e industriali che rafforzano la domanda di lavoratori e contribuiscono anch’esse a dare maggiore centralità al lavoro. I processi internazionali che sono alla base delle politiche pubbliche dei Paesi industrializzati sono destinati a durare nel tempo. Gli effetti sullo spostamento di potere sul mercato del lavoro si può già registrare con un un recupero fra il 2020 e i due anni successivi di due quinti della diseguaglianza salariale accumulatasi negli ultimi decenni. Questo risultato misurato nell’economia americana è probabile che si diffonderà a tutte le economie dei Paesi industrializzati visto che il mismatching quantitativo e qualitativo fra domanda e offerta di lavoro è una caratteristica comune a tutte le realtà.
La scarsità di manodopera caratterizza tutte le professioni che richiedono una specializzazione, sia questa di alto livello o tecnica per addetti alla produzione industriale. È altrettanto presente nei lavori manuali, anche con bassa qualificazione ed è qui che porta a un’evidente pressione per arrivare a utenti salariali. Questi si stanno presentando come indispensabili per assicurare il reclutamento di lavoratori in attività a bassa qualificazione e per assicurarsi il permanere di competenze tecniche fra i lavoratori già occupati nelle imprese. Il fenomeno delle grandi dimissioni, per lo più movimenti di passaggio verso un’occupazione maggiormente gratificante non solo per ragioni economiche, indica il rafforzarsi della possibilità di scelta che si offre oggi ai lavoratori con competenze richieste dal mercato.
In questo scenario giocano inoltre le prime applicazioni dell’intelligenza artificiale: nuove tecnologie faranno nascere nuove professioni e determineranno la fine di altre. Non sappiamo ancora se i processi di transizione creeranno forti impatti negativi sull’occupazione per poi arrivare a una nuova stabilità come avvenuto in altre fasi di cambiamento tecnologico. Certo stiamo già vedendo come l’impatto riguarderà soprattutto le qualifiche e i lavoratori non sostituibili dalle macchine per quanto intelligenti. I lavori prettamente manuali potranno trovare assistenza dalle macchine, ma la presenza umana resterà determinante. Dal lavoro nei call center al lavoro degli infermieri l’intelligenza artificiale permetterà di aumentare precisione e competenze cui applicarsi, ma resterà la presenza dell’uomo per ottenere il servizio necessario.
La portata del cambiamento sarà però un aumento della produttività in tutti i settori in cui le nuove tecnologie digitali saranno impiegate. La politica potrà proseguire nel sostenere l’economia assecondando l’innovazione. Dovrà badare a sostenere le innovazioni dei cicli produttivi e i cambiamenti delle professioni regolamentando quelle iniziative che potrebbero portare ad applicazioni delle macchine intelligenti senza garanzie per la sicurezza delle persone.
Certamente si apre una fase di grandi transizioni del lavoro e delle professioni. Occorre che i servizi e le politiche del lavoro siano adeguate a sostenere le persone in questi passaggi e che i processi di cambiamento siano sostenuti perché offrano i frutti della crescita delle opportunità di lavoro e delle crescita dei salari data la nuova produttività.
Servono anche soggetti sociali che abbiano colto il cambiamento in corso e portino avanti politiche capaci di far avere al lavoro quanto gli spetta in questa nuova età dell’oro.
Occorrono sedi di dialogo sociale fra tutti i soggetti che ritengono che la nuova fase di sviluppo offra nuove opportunità per un’organizzazione del lavoro che valorizzi le persone coinvolte, con una distribuzione più equa della ricchezza prodotta e che usi le nuove tecnologie per migliorare sia il tempo di lavoro che il tempo di vita nel suo complesso.
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