Il saggio "Il diritto dell'Unione Europea, la sua legittimità e il suo futuro" interpreta l'attuale fase evolutiva dell'UE e le sue contraddizioni irrisolte

Il volume Il diritto dell’Unione Europea, la sua legittimità e il suo futuro curato da Leonardo Mellace (ESI, 2025) raccoglie contributi di importanti studiosi del diritto dell’UE, variamente incentrati sulla portata dell’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea.

Questo articolo codifica i valori dell’UE stessa, quali fondamenti sia degli Stati membri che dell’UE, nel modo seguente: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.



Per colpire gli Stati che si rendono colpevoli di attentare sistematicamente a quei valori, il TUE prevede una procedura che richiede l’unanimità del Consiglio europeo (art. 7 TUE) e che non è mai potuta andare in porto nei confronti della Polonia e dell’Ungheria, nonostante le derive illiberali che hanno connotato e in parte connotano ancora questi Stati europei.



La fantasia dei giuristi delle istituzioni europee, però, ha aggirato l’ostacolo varando il Regolamento sulla condizionalità (2020/2092), che ha subordinato l’esborso dei finanziamenti europei (compresi quelli del NGEU) al rispetto dello Stato di diritto sancito proprio nell’art. 2 TUE. Il Regolamento si basa, effettivamente, sull’assai più prosaico art. 322 TFUE, relativo alle “regole finanziarie che stabiliscono in particolare le modalità relative alla formazione e all’esecuzione del bilancio, al rendiconto e alla verifica dei conti”.

Pronunciandosi sui ricorsi di Polonia e Ungheria contro tale Regolamento, la Corte di giustizia ha affermato, fra l’altro, che quei valori costituiscono l’“identità” dell’UE e che uno Stato “la cui società è caratterizzata dalla discriminazione” non può dirsi rispettoso dello “Stato di diritto” sancito dall’art. 2 TUE e tutelato dal regolamento 2020/2092.



I contributi del volume lasciano sullo sfondo tale importante passaggio dell’evoluzione del diritto dell’UE, ma è bene che il pubblico dei non specialisti abbia presente il contesto attuale in cui gli studiosi e i pratici del diritto europeo si muovono quando parlano dei valori dell’UE.

Il primo contributo è scritto da un importante giurista tedesco, Armin von Bogdandy, il quale ripercorre le tesi di un suo recente e ponderoso lavoro sull’evoluzione dell’ordinamento dell’UE (Strukturwandel des öffentlichen Rechts, 2022). La sua tesi centrale è quella per cui l’UE, diversamente dagli Stati contemporanei, non si fonda sull’unità di popolo, di nazione, di lingua, ecc., bensì sull’unità della “società europea”. Ciò sarebbe avvalorato proprio dal secondo periodo dell’art. 2 TUE, in cui il riferimento ai valori caratteristici di “una società” (pluralismo, non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà e parità tra donne e uomini) starebbe a significare proprio che il Trattato di Lisbona (del 2009) ha codificato per tabulas l’esistenza di una società europea, colta nella sua unicità, appunto. Le citate sentenze della Corte di giustizia contro Polonia e Ungheria confermerebbero tale approccio, a detta dell’autore.

Vale la pena di ricordare, però, che il riferimento a “una società democratica” è contenuto in quasi tutti gli articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, senza che nessuno abbia mai avuto l’ardire di concepire quel riferimento come la base unitaria dell’ordinamento giuridico del Consiglio d’Europa, che era e resta un’organizzazione internazionale senza ambizioni para-federali.

La “società democratica” della CEDU è sempre stata ritenuta uno standard ideale alla luce del quale verificare se le limitazioni apportate dagli Stati ai diritti e le libertà individuali per motivi variamente legati alla morale, all’ordine pubblico, alla sicurezza nazionale, siano compatibili con il modello liberale che ha ispirato i redattori della Convenzione stessa. Il salto che von Bogdandy fa compiere alla formula giuridica della “società” quale società europea unitaria si giustifica, evidentemente, alla luce del più avanzato livello di integrazione raggiunto dall’UE rispetto al Consiglio d’Europa. Tuttavia, resta il dubbio che si tratti di un eccesso di costruttivismo giuridico con cui aggirare elegantemente l’ostacolo di un ordinamento para-federale privo di un’autentica unità politica, perché, a monte, manca un’autentica volontà solidale degli Stati membri.

Ed è proprio questa la piaga in cui affondano il dito i due contributi successivi di Agustín Menéndez e Costanza Margiotta. Per il primo, l’UE ha dimostrato, con la gestione delle crisi dei debiti sovrani del 2008 e della pandemia del 2020, una carenza dell’autentica solidarietà che dovrebbe caratterizzare le comunità politiche (statali e federali). Si è trattato, in pratica, di strumentalizzare il potere pubblico di normazione (di cui l’Ue è indubbiamente dotata) al fine di attivare una “solidarietà invertita”, con cui far “pagare ai cittadini degli Stati “assistiti” tutti i costi dell’avventatezza finanziaria” di cui si sono rese responsabili le banche private (e i risparmiatori) degli Stati creditori (Germania e Francia, in primis) nella fase “ottimistica” dell’instaurazione della moneta unica.

Anche la gestione della crisi pandemica avrebbe riprodotto tale meccanismo di solidarietà invertita, nella misura in cui il ricorso al NGEU non ha affatto superato la logica del confinamento dei bilanci nazionali (così come gli interventi emergenziali della BCE sono rimasti, in ultima istanza, addossati alla responsabilità prevalente delle singole banche centrali). Più che l’emissione di debito comune in assenza di bilancio e fisco comuni, per aversi una svolta solidaristica nell’UE sarebbe necessario un cambiamento radicale della “costituzione economica” dell’UE che abbandoni lo schema della competizione interstatuale, a partire dalla lotta congiunta ai paradisi fiscali che prosperano da anni all’interno dell’UE.

Il contributo di Costanza Margiotta critica la tesi di von Bogdandy, laddove questa, portata alle sue logiche conseguenze, sembra appagarsi dell’attuale condizione dell’UE, quella, cioè, di un ordinamento giuridico che esibisce caratteri para-federali pretendendo di poter fare a meno della politica, quale necessario fondamento del diritto. Lo slogan dell’ ”integrazione attraverso il diritto”, però, è stato definitivamente squalificato dalle riforme punitive introdotte negli anni della crisi dei debiti sovrani, per cui oggi, lungi dal concentrarsi solo sui “valori” dell’UE, occorrerebbe ripartire dalla cittadinanza europea e dalle sue valenze politiche e democratiche.

La cittadinanza europea dovrebbe costituire “lo status primario” dei cittadini europei non solo a parole (quelle della Corte di giustizia), bensì anche nei fatti, attraverso una solidarietà autentica tra gli Stati membri quale presupposto necessario per la democratizzazione dell’Unione.

Il contributo di Joana Mendes si riferisce anch’esso criticamente alle tesi di von Bogdandy, laddove queste puntano ottimisticamente a legittimare l’ordinamento UE attraverso l’alleanza tra giurisprudenza della Corte di giustizia e comunità degli studiosi accademici del diritto europeo. I princìpi generali del diritto dell’UE sono indubbiamente frutto dell’elaborazione congiunta di giurisprudenza e dottrina. Ma, nonostante l’uso che se ne è fatto di equivalenti funzionali dei corrispondenti princìpi degli ordinamenti statuali, i princìpi generali non possono surrogare la funzione della politica, quale fondamento del diritto (europeo). Neppure i valori dell’art. 2 TUE possono bastare a fondare la “legittimità politica del potere pubblico” dell’UE.

L’ultimo contributo di Blanca Rodríguez-Ruiz critica la formulazione dell’art. 2 TUE dal punto di vista dei cosiddetti gender studies, ritenendo che quei valori non possano condurre a una UE autenticamente democratica. Quei valori-princìpi sarebbero, infatti, costruiti sul modello antropologico esclusivo ed escludente del maschio bianco, borghese, cristiano, eterosessuale, abile nel corpo e nella mente. Il paradigma della libertà e dell’eguaglianza che troneggia all’interno di quei valori sarebbe insufficiente a garantire l’autentica democrazia dell’auto-governo, la quale dovrebbe invece passare per l’”autonomia relazionale”, incentrata non su un modello antropologico specifico, bensì sull’”auto-regolazione all’interno di un processo infinito di auto-costruzione personale”.

Tale auto-regolazione dell’individuo potrebbe affermarsi nell’UE grazie alle libertà (non politiche) di circolazione e soggiorno, come testimoniato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che ha garantito, in una serie di casi recenti, a coppie omosessuali di vedersi riconosciuta la “portabilità” di determinati diritti (compreso quello all’omogenitorialità), acquisiti entro Stati europei con legislazioni spiccatamente progressiste, in altri Stati europei dove quei cittadini hanno deciso di trasferirsi esercitando la loro libertà di circolazione e soggiorno garantita dall’UE.

Questo contributo, diversamente dagli altri, punta decisamente sul paradigma foucaultiano dell’auto-governo del sé, per concludere assertivamente che “(l)’unico cittadino ideale è colui che si auto-governa, (…) limitato unicamente dal rispetto dovuto all’auto-normatività di tutti gli altri individui”. Con il che, si aggira alla radice la questione dell’insufficiente caratura politica dell’UE e dell’esigenza di redistribuzione del potere (che da economico si fa politico) che l’attuale assetto squilibrato dell’Unione non è in grado di soddisfare.

Il volume fornisce una serie di spunti critici costruttivi di indubbio livello sull’attuale fase evolutiva dell’UE, accomunati dal ruolo che il giurista è chiamato a svolgere nella difficile decostruzione e ricostruzione dell’assetto normativo dell’UE. L’asse attorno cui ruotano i contributi è la contrapposizione della tesi continuista e ottimista di chi vede nell’ordinamento europeo la dimostrazione della possibilità del superamento della forma-Stato nel governo delle società, alle tesi che, richiamandosi alla fase iniziale dell’integrazione europea, sostengono la necessità di preservare i capisaldi della democrazia popolare e solidale prodottasi all’interno dello Stato sociale del Secondo dopoguerra, i cui frutti non possono essere salvaguardati senza il ritorno del Politico.

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