Ieri Mediaset ha presentato il piano industriale a Londra. La decisione di incontrare il mercato per illustrare i propri obiettivi industriali e finanziari si inserisce nella vicenda dell’entrata nell’azionariato di Vivendi che ha raggiunto una quota del 30%, appena sotto la soglia d’opa, sfidando la posizione di controllo dell’azionista storico nonché fondatore Berlusconi. Le ambizioni di Vivendi sarebbero, in teoria e secondo quando dichiarato settimana scorsa dal suo ad, quelle di creare un polo europeo dei media di cui Mediaset o il mercato italiano sarebbe una componente. È altrettanto possibile che la ragione economica di una scalata così aggressiva non sia dovuta alle sinergie raggiungibili da una fusione; sinergie che sarebbero tutte da dimostrare per un produttore di contenuti generalista che inevitabilmente ha un forte contenuto locale. È molto difficile ipotizzare che i successi di Mediaset, Amici, Striscia la notizia, piuttosto che i film di Checco Zalone, siano “vendibili” in Francia oppure che improvvisamente i milanesi si appassionino alle sorti del Nizza o i romani a quelle del Paris Saint-Germain. A parte le sinergie di costo, spesso antipatiche per i dipendenti, l’unico punto di contatto sarebbe il segmento premium, quello dei film “in prima visione” e magari dei diritti delle maggiori competizioni sportive e europee. Senza dimenticarci che l’arena competitiva è ormai affollata di concorrenti, come Netflix, globali e a basso costo.
Da un punto di vista finanziario è molto più ragionevole pensare che gli obiettivi di Vivendi siano una collaborazione sul premium e poi, quello non detto, ma di gran lunga più decisivo che assume che l’attuale gestione di Mediaset sia migliorabile. A questo proposito l’idea potrebbe essere che la giustificazione dell’investimento e degli acquisti a forte premio sia la convinzione che lo stesso oggetto con lo stesso perimetro possa dare risultati molto migliori con una gestione diversa. La decisione di presentare un piano industriale potrebbe essere proprio la risposta a una sfida non detta, né dichiarata, ma esistente, fatta davanti al mercato: noi siamo perfettamente in grado di creare valore e condurre la società con profitto. Misurarsi su questo livello è fondamentale se lo scontro tra Fininvest e Vivendi si risolvesse in una votazione assembleare in cui i fondi si schiererebbero su chi viene ritenuto più attrezzato per creare valore finanziario.
Nel piano industriale presentato ieri è Mediaset premium il punto più importante. La convinzione è suffragata dai numeri, perché dei 470 milioni di euro di miglioramento del reddito operativo netto previsto per il 2020 quasi la metà viene da premium per cui si immagina un’apertura a partner e un approccio opportunistico sulle gare per i diritti sportivi. Da un punto di vista industriale la questione non è mai cambiata. Il problema di Mediaset è che l’Italia non può avere due soggetti nel segmento premium. Sky, e il suo numero di abbonati, ha retto benissimo alla perdita dell’esclusiva sulla Champions League. Se Mediaset vuole fare sul serio deve investire centinaia di milioni di euro e nel frattempo fronteggiare il leader di mercato. Nemmeno la necessità di trovare un partner è una novità, e infatti Mediaset si era alleata per il premium con Vivendi; Vivendi poi deve aver deciso, o fin da subito, che l’unico senso industriale e finanziario possibile era quello di prendere tutta Mediaset, mentre solo premium, con i suoi problemi industriali strutturali, non poteva averne.
Oggi la situazione di stallo si può risolvere o in assemblea o con un’opa da parte di Vivendi. A questo proposito vorremmo solo evidenziare questo “dettaglio”. Non si può pensare di fermare Vivendi scegliendo l’argomento di una posizione di eccessiva concentrazione di mercato per via del contestuale controllo su Telecom Italia. Non si può perché Vivendi potrebbe tranquillamente vendere la propria quota in Telecom Italia al suo compratore naturale e dichiarato, e cioè France Telecom/Orange, e poi con i soldi ricavati avere le munizioni per un’offerta su Mediaset. La questione, dal punto di vista del sistema Paese, è sostanziale e di principio; non si può cedere il controllo sia della principale emittente privata che dell’ex monopolista telecom e pensare di rimanere indipendenti, soprattutto se la controparte è un Paese che ha fatto la guerra in Libia con lo scopo inziale e finale di danneggiare gli interessi energetici italiani e prendere il suo posto a tutto vantaggio del sistema Paese francese.
Su queste cose non si scherza e la prova provata è che nessun Paese del primo mondo ha permesso questi esiti. A partire dagli Stati Uniti, che da sempre impongono la cittadinanza americana come prerequisito per investire nei media del loro Paese. Chiedere a Murdoch per credere. Se vuoi controllare uno strumento potente come la televisione devi essere dei nostri, altrimenti puoi anche rimanere dove sei. Questo è l’approccio non di un Paese bolscevico e sovietico, ma della patria del “liberismo” e del mercato.