L'incontro tra Trump e Putin avviene a distanza di 80 anni dall'anniversario della resa del Giappone nella Seconda guerra mondiale
Il 15 agosto – giorno scelto da Donald Trump e Vladimir Putin per il loro summit – non è una data a caso: è il VJ Day, l’anniversario della resa del Giappone, vera parola fine della Seconda guerra mondiale. E non stona affatto nemmeno che i leader odierni delle due potenze vincitrici di allora abbiano infine optato per l’Alaska, scartando un’ipotesi europea come l’Italia (e al contrario di Islanda 1986 per il vertice fra Ronald Reagan e Michail Gorbaciov).
Nell’agosto di ottant’anni fa la Germania nazista si era già arresa da tre mesi: il VE-Day è l’8 maggio in Occidente e il 9 a Mosca. Cento giorni fa Putin ha voluto nuovamente celebrare la “Grande Guerra Patriottica”, facendo sfilare davanti al Cremlino anche reparti impegnati sul fronte ucraino (l’Armata Rossa lo chiamava così anche quando difendeva Stalingrado e riconquistava Kharkiv e Kiev). Nonostante nel 1945 al tavolo dei vincitori sedessero la Gran Bretagna – a pieno titolo – e la Francia, che invece era stata sconfitta e invasa dalla Germania hitleriana, il Vecchio continente usciva definitivamente distrutto dalla “Seconda Guerra dei Trent’anni”.
La lunga guerra civile continentale iniziata nell’agosto 1914 ebbe come esito ultimo la fine della supremazia europea sul pianeta e l’avvento di Usa e Urss come potenze egemoni. A esse si è poi aggiunta la Cina, che nel 1945 era ancora teatro di una guerra civile, fra maoisti e nazionalisti filo-americani, infine trinceratisi a Taiwan.
Nell’agosto 2025 un nuovo super-vertice sembra voler ricalcare quello del gennaio 1945 a Yalta, città nella Crimea passata dall’Urss all’Ucraina alla svolta epocale della caduta del Muro e ri-occupata da Mosca nel 2014. I successori di Franklin Delano Roosevelt e Josip Stalin s’incontreranno ora in Alaska: più che simbolicamente al confine artico fra Russia asiatica e Usa, sullo sfondo dell’Oceano Pacifico, dove si affacciano il Dragone e più oltre l’India. Dove Giappone e Australia rappresentano i capisaldi geopolitici di un Occidente faticosamente riesumato.
Se d’altronde fra una settimana sarà disegnato un abbozzo di “nuovo ordine mondiale” difficilmente sarà definitivo: è verosimile che possa diventarlo in autunno, quando è in pre-agenda un super-super-vertice fra Trump e il leader cinese Xi Jinping.
In Alaska non ci sarà comunque il premier britannico Keir Starmer, successore di Winston Churchill: che resistette inizialmente da solo a Hitler, ma senza gli Usa e l’Urss non l’avrebbe mai battuto. E proprio a Yalta, in fondo, Churchill levò il suo ultimo urrà: pochi mesi dopo gli elettori britannici scelsero un premier laburista e l’Impero vittoriano andò rapidamente in pezzi.
L’ultimo colpo lo inferse la crisi di Suez del 1956. Fu in occasione della seconda di tante guerre mediorientali seguite alla fondazione dello Stato di Israele, erede di un precedente mandato internazionale a Londra per l’amministrazione della Palestina.
Dagli annali: nel 1956 il presidente egiziano Nasser – arabo laico anti-colonialista – decise di nazionalizzare il Canale di Suez e provocò la reazione di Francia e Gran Bretagna. Queste fecero leva su Israele per contrastare l’Egitto, ma tutti furono fermati dagli Usa: dove il presidente (repubblicano) era Dwight Eisenhower, il generale che aveva liberato l’Europa occidentale ed era divenuto garante del “nuovo ordine” di Yalta, anche nella cornice ferrea della Guerra fredda.
Nell’orizzonte-Yalta al popolo ebraico era stato riconosciuto – dopo la Shoah, dalla neonata Onu – il diritto a uno Stato nella “Terra dei Padri”, ma a fianco di uno Stato palestinese e non certo con un ruolo neo-imperialistico in Medio Oriente e oltre.
In Alaska non ci sarà neppure il presidente francese Emmanuel Macro,: erede in linea retta di Charles de Gaulle, il generale che durante la Seconda guerra mondiale era riuscito a tenere sollevata la bandiera della “Francia Libera”.
Nelle ultime settimane Macron è parso reagire con un frenetico attivismo esterno in chiave di grandeur all’avvitamento interno della sua presidenza, sconfitta l’anno scorso dal voto europeo e da quello legislativo.
La Francia paralizzata dell’agosto 2025 – in crisi economico-finanziaria e priva di una maggioranza parlamentare stabile – assomiglia non poco a quella degli anni 50 del secolo scorso, quando il ritiro traumatico dall’Indocina e soprattutto la rivolta indipendentista dell’Algeria travolsero la Quarta Repubblica.

Non è certo un caso che Macron appaia vittima dell’obsolescenza istituzionale del semipresidenzialismo adottato negli anni 60 a Parigi per favorire il ritorno dei de Gaulle al potere; e che in questi giorni sia in escalation una specifica crisi franco-algerina, attorno all’incarcerazione dello scrittore Boualem Sansal, ma non solo.
Durante il 2025 Starmer e Macron – dopo Brexit non più entrambi capi di governo Ue – hanno occupato per settimane le homepage dei grandi media internazionali con la loro iniziativa dei “Volenterosi per la pace in Ucraina”. Negli ultimi giorni gli stessi si sono segnalati con appelli estemporanei per il riconoscimento dello Stato palestinese in funzione più anti-Usa che anti-Israele. In entrambi i casi non sono riusciti a smuovere un solo sassolino sul teatro della “Terza guerra mondiale a pezzi”.
L’unica Europa ad avere avuto un ruolo è quella impersonata – non illegittimamente – dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, che due weekend fa in Scozia ha siglato un accordo di principio con Trump su dazi e investimenti.
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