ILVA/ L’occasione per metter fine alla “guerra siderurgica” dei dieci anni

- Federico Pirro

Dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha salvato l'area a caldo dell'ex Ilva di Taranto, ora tocca al Governo agire speditamente

ilva_taranto_impianti_1_lapresse_2018 Impianti Ilva di Taranto (LaPresse)

E ora dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha annullato quella del Tar di Lecce – consentendo così di conservare in esercizio l’area a caldo dello stabilimento di Acciaierie d’Italia a Taranto – si guardi avanti da parte di tutti, società, Governo, Sindacati, Istituzioni locali, puntando tutti insieme all’avvio “spedito”, come ha detto il Ministro Giorgetti, di un grande progetto di riassetto impiantistico del Siderurgico ionico che, nei tempi tecnici necessari, abbia come obiettivo quello di produrvi a costi di mercato acciaio “green”, chiudendo così una volta per sempre e con il consenso di tutti, o almeno della stragrande maggioranza degli stakeholder interessati, la “questione siderurgica tarantina” che dal 26 luglio del 2012 – giorno del sequestro dell’area a caldo senza facoltà d’uso, poi restituita e conservata da leggi approvate in Parlamento – è una ferita tuttora aperta nel nostro Paese. 

Certo, la sentenza n. 4802 della Sezione IV del Consiglio di Stato di annullamento di quella n.249/2021 del Tar di Lecce – che, invece, a suo tempo aveva respinto il ricorso di società e Amministrazione straordinaria contro l’ordinanza del Sindaco di Taranto di spegnimento dell’area a caldo del Siderurgico, in assenza di interventi per ridurne le emissioni nocive – dopo l’udienza del 13 maggio in cui si era svolto il dibattimento fra le parti, è stata a lungo attesa con preoccupazione da azienda, Governo, Sindacati, dipendenti dell’acciaieria, imprese dell’indotto e da tutti coloro che – al di là di ogni demagogia – hanno realmente a cuore le sorti della più grande fabbrica manifatturiera del nostro Paese.

Le motivazioni contenute nelle 60 pagine della sentenza del Consiglio di Stato, in realtà e a ben vedere, erano state anticipate sia pure in sintesi nella sospensiva che, su ricorso di AmInvestco Italy e Amministrazione straordinaria – tuttora proprietaria degli impianti dell’ex Ilva – era stata accordata nei mesi scorsi, consentendo così il prosieguo dell’esercizio dell’area a caldo che, non lo si dimentichi, è tuttora sotto sequestro, ma con facoltà d’uso. 

Ma ora, senza entrare dettagliatamente nel merito di quanto statuito dal supremo organo della giustizia amministrativa – certo non ignaro della natura tuttora pubblica della proprietà del compendio impiantistico del gruppo, e della partecipazione paritetica con l’azionista privato di una finanziaria pubblica come Invitalia al capitale della società di gestione delle fabbriche – è bene concentrarsi come abbiamo detto in precedenza su quanto ha giustamente sottolineato il Ministro Giorgetti, il quale ha affermato che ora il Governo intende procedere speditamente al piano di riassetto tecnologico dello stabilimento tarantino, in linea con quanto previsto con il Pnrr. 

E al riguardo anche i Sindacati hanno sottolineato con forza che ora non vi sono più alibi per l’Esecutivo per portare innanzi un nuovo piano industriale che dovrà fare assoluta chiarezza su investimenti, ammodernamento di impianti, volumi produttivi, drastica riduzione di emissioni nocive, e soprattutto sui futuri assetti occupazionali nella fabbrica e nelle aziende del suo indotto pugliese, i cui titolari proprio nei giorni scorsi hanno manifestato in massa dinanzi ai cancelli del sito per rivendicarvi la conservazione dell’area a caldo.

Allora, si insedino ad horas i tre consiglieri designati da Invitalia, ovvero Franco Bernabé, Stefano Cao e Carlo Mapelli, si proceda alla definizione (se già non concordata) delle deleghe fra Presidente di nomina Invitalia e Amministratore delegato espresso da Arcelor Mittal, si assuma in consiglio di amministrazione una delibera che assegni al prof. Mapelli – il maggior esperto di siderurgia nel mondo accademico italiano – il coordinamento tecnico-applicativo di quanto si sarebbe stabilito al Ministero della transizione ecologica fra Fincantieri e Paul Wurth per l’ammodernamento di quegli altiforni che (presumibilmente) si lasceranno in esercizio o si riattiveranno come l’AFO5, e sui forni elettrici che bisognerà installare, su come dovranno essere alimentati, su costi di preridotto e del gas necessario per produrlo a costi competitivi, e sul rottame necessario per la loro carica – senza creare ulteriori problemi di approvvigionamento alla elettrosiderurgia privata italiana – e soprattutto si faccia chiarezza su quanti dovranno essere gli addetti nel futuro assetto dello stabilimento ionico, e su quanti dovranno rimanerne nei siti “a valle” di Genova e Novi Ligure. 

E per tutti coloro che molto probabilmente entro un certo lasso di tempo non torneranno in fabbrica si mettano a punto piani di rioccupazione realmente credibili per numero di rioccupabili e settori di investimento, senza pensare di parcheggiarli in lunghi periodi di cassa integrazione, come sta accadendo da anni ai circa 1.600 addetti dell’ex Ilva in Amministrazione straordinaria. Perciò si crei alla presidenza del Consiglio una Struttura tecnica di missione esclusivamente dedicata alla reindustrializzazione di Taranto e del suo hinterland, dotandola di competenze e di esperienze realmente utili nell’assolvimento di un compito che non sarà affatto facile o di breve momento.

E si avvii subito da parte dell’intero Governo un rinnovato dialogo con la città di Taranto, i suoi stakeholder e tutta la cittadinanza per presentare a essa il nuovo piano industriale e ambientale per il Siderurgico che dovrà assicurare lavoro, tutela della salute e dell’ambiente, e nuova visibilità nazionale e internazionale a una città storicamente a vocazione industriale che, invece, l’Amministrazione comunale in carica sta cercando in tutti i modi di far dimenticare all’opinione pubblica, offrendo a essa le labili prospettive future di una città vocata al turismo, all’economia del mare, all’Arsenale della Marina Militare e alla presenza di forze armate italiane e straniere, impiegate nella grande base navale della Nato: tutte risorse e presenze, queste, sicuramente utili all’economia del capoluogo ionico, ma per nulla sostitutive, a nostro avviso, di quelle ben più elevate derivanti da una moderna e tecnologicamente sostenibile produzione (nei tempi tecnici necessari) di acciaio “green”, con tutti gli effetti indotti per il vasto cluster delle aziende di subfornitura, per le movimentazioni portuali, per le imprese di trasporto di coils, lamiere e tubi su gomme, ferrovia e via mare e per i rapporti con il mondo della ricerca scientifica.

Taranto è, e dovrà restare, una capitale dell’acciaio italiana ed europea, ma sarà necessario dimostrare che si potrà produrlo con tecnologie e processi avanzati, rispettando ambiente, salute e diritto al lavoro. Occorreranno investimenti ingenti, grandi competenze ingegneristiche, mature professionalità di fabbrica, intelligente collaborazione delle Istituzioni locali.

È giunto il momento, insomma, di porre fine alla “guerra siderurgica” dei dieci anni che ha visto radicalizzarsi nel tempo posizioni duramente contrapposte fra chi difendeva l’acciaieria e la sua occupazione, pur con tutti gli interventi necessari per mitigarne al massimo le emissioni nocive e chi, invece, anche in alcuni palazzi del potere, si assegnava la missione “storica” di farla chiudere dopo 60 anni di attività, proponendo di salvarne l’occupazione con lavori pluridecennali di bonifica del sito. Bisognerà, al contrario, promuovere un disarmo bilaterale e bilanciato di posizioni contrapposte, lavorando tutti per una produzione siderurgica ecosostenibile al servizio dell’economia territoriale, della Puglia e del Paese.

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