Il “d-day” è finalmente arrivato, oggi scopriremo quali mosse farà la Bce per contrastare il rischio deflattivo e cercare di riattivare la trasmissione del credito nella periferia dell’eurozona. Di quali siano le ipotesi sul tappeto parlo da settimane, quindi è inutile tornare a elencarle, ma qualcosa già ieri si è mosso sul mercato e non esattamente in direzione positiva. Da un lato, per non farsi trovare impreparati di fronte alla Banca centrale europea, gli hedge funds stanno tagliando la loro esposizione all’euro. Lo rivela un nuovo report di Lyxor, che analizza come i gestori alternativi stiano cambiando i portafogli in vista delle operazioni allo studio dell’istituto di Francoforte: «Sia gli hedge fund specializzati in strategie cta (commodity trading), sia i global macro (le strategie che seguono trend macroeconomici), hanno recentemente ridotto le posizioni nel cambio euro-dollaro», spiegava ieri a MF Philippe Ferreira, capo della ricerca della piattaforma di managed account di Lyxor asset management. In particolare, i global macro «hanno già da qualche tempo una posizione short sul cambio euro-dollaro, ma di recente hanno aumentato questa scommessa ribassista», precisa Ferreira. Nel frattempo, viene aumentata l’esposizione alla sterlina inglese. «Questi movimenti si stanno realizzando nel corso di settimane, quelle di maggio, in cui il biglietto verde si è apprezzato nei confronti delle principali valute, con l’eccezione dello yen», proseguiva Ferreira che si basa, per analizzare le mosse degli hedge fund, sulla piattaforma Lyxor che comprende oltre 100 fondi alternativi che rappresentano 200 miliardi di asset in gestione.
Dai massimi toccati a inizio maggio a quota 1,395, il rapporto euro-dollaro è sceso nelle ultime settimane a 1,36. Quanto alle strategie azionarie, Ferreira sottolinea che quest’anno investire seguendo il detto “sell in may and go away” (vendi a maggio ed esci), alla resa dei conti non si è rivelata una mossa vincente. A partire dagli Usa dove l’indice S&P 500 ha toccato nuovi massimi (grazie ai buybacks azionari però, come vi ho spiegato), mentre il mercato azionario mondiale (indice Msci Ac World) a maggio ha guadagnato l’1,9%, con l’Europa che ha realizzato un +2% (Ftse Euro 300) e i Paesi emergenti il +2,1% (Msci Em Free).
Ma c’è anche dell’altro: due grandi fondi, Pioneer Investment Management e AllianceBernstein Holding ieri hanno avvisato il mercato sul rischio che la Bce oggi deluda le aspettative di chi opera sul mercato obbligazionario sovrano. Nonostante il crollo a picco sui minimi per i rendimenti dei bond italiano, spagnolo, francese e belga, proprio perché si prezzava in anticipo l’intervento di Mario Draghi, dalla Pioneer Investment – che gestisce assets per 244 miliardi di dollari – arriva una posizione chiara: «Vediamo un alto rischio di delusione all’orizzonte. Il mercato sta chiaramente attendendo e scontando una qualche forma di Quantitative easing stile Fed o quantomeno un’apertura di credito chiara e con un riferimento temporale a questa ipotesi. Noi pensiamo che al riguardo la Bce sia ancora riluttante, quindi chi ha comprato Bund e bond italiani nell’aspettative di misure di allentamento monetario rischia di restare deluso».
Nell’ultimo sondaggio condotto ieri da Bloomberg, la stragrande maggioranza degli economisti si attende un taglio a zero del tasso di rifinanziamento principale e tassi negativi sui depositi già da oggi, ma a destare qualche preoccupazione sono, paradossalmente, i rendimenti davvero troppo bassi delle obbligazione sovrane dell’area euro: ieri il Bund all’1,5% scadenza maggio 2024 prezzava uno yield dell’1,41% con un prezzo di 100,82% del valore facciale, il decennale spagnolo era al 2,86%, mentre il nostro Btp era al 3,01%. Anche per la AllianceBernestein «il mercato si attende misure concrete o quantomeno un focus, magari ancora in fieri, verso un qualche forma di Qe. Non pensiamo però che accadrà oggi, quindi non ci stupirebbe una sell-off sul Bund e sui bond periferici nel breve termine».
Certo, il rischio esiste ma va corso. Per un motivo molto chiaro di cui vi ho parlato: occorre costringere, non trovo verbo migliore, le banche a prestare soldi alle imprese. Ieri lo yield implicito nei contratti futures sull’Euribor con scadenza dicembre è sceso allo 0,175%, mentre l’Euribor a tre mesi, il tasso che le banche pagano per prestiti su questa scadenza in euro, è sceso allo 0,301%, il livello più basso dal 7 marzo. Ora, se oggi la Bce taglierà il tasso di rifinanziamento allo 0,1%, quella percentuale crollerà ulteriormente in area 0,15% e questa è la mossa minima che il mercato si attende: come è possibile, quindi, che con il denaro praticamente regalato, le banche applichino per i prestiti alle piccole e medie imprese qualcosa come oltre il 4% oltre l’Euribor? Devono far pagare ai lavoratori e alle famiglie incagli e sofferenze che non riescono a piazzare a fondi esteri al 30-40% del valore nominale per imbellettare i bilanci in vista della supervisione e degli stress test? Devono far scontare ad artigiani e commercianti i 430 miliardi di debito pubblico che hanno nei bilanci e che tanto fa sorridere il governo per lo spread basso?
È ora di finirla, se Mario Draghi oggi andrà oltre – magari annunciando un’altra asta di rifinanziamento a lungo termine Ltro – deve imporre che una parte consistente di quel denaro vada in erogazione di credito a imprese e famiglie e non per comprare titoli di Stato o salvare aziende decotte con le banche a fare da “cavaliere bianco”, altrimenti questo Paese muore e il tasso di disoccupazione andrà ulteriormente in orbita. Con tutti i rischi che questo comporta, soprattutto di coesione sociale.
Tanto più che la ripresa stagna in tutta l’eurozona: l’indice composito per manifattura e servizi pubblicato lo scorso 22 maggio e riguardante i 18 paesi che hanno adottato la moneta unica parla di una contrazione a 53.5 dai 54 di aprile e contro le attese di 53.9. Certo, siamo ancora sopra 50, quindi in formale fase di espansione, ma un report separato parla di crescita nell’area euro allo 0,2% nel primo trimestre di quest’anno, stesso livello dei tre mesi precedenti. E attenzione, perché mentre le banche pensano agli affari loro e l’Ue stagna, i mercati si preparano.
Lo ha detto chiaro e tondo ieri Kit Juckes, analista per Societe Generale a Londra, a detta del quale «da dove eravamo nel 2012 a dove siamo oggi, possiamo dire che il 90% del lavoro di compressione degli spread e dei rendimenti sovrani è fatto. Quindi, lavorando da gestore di assets, comincerei a chiedermi, perché restare ancora in gioco? Si resta nel periferico non perché si prezzi un’ulteriore contrazione degli spread ma solo perché ti garantisce ancora un 1% in più del Bund come rendimento. Tutto qui ma questa situazione può cambiare. E rapidamente».
Con le securities governative tedesche che da inizio anno hanno garantito un +3,9%, quelle italiani +7,3% e quelle spagnole l’8,3%, stando a dati di Bloomberg World Bond Indexes, qualcuno potrebbe avere la pancia piena e cominciare a valutare i rischi reali dei paesi su cui opera, gli stessi dati macro finora dimenticati in onore della caccia al rendimento. Attenzione, oggi Mario Draghi aprirà le danze, ma qualcuno sta già pensando di abbassare il volume, quasi a farci capire che la festa potrebbe finire prima del previsto.