È un po’ la parabola del figliuol prodigo ma riscritta in un modo che proprio, di questi tempi, nessuno se lo sarebbe aspettato: in Italia, nella conflittuale Italia politica e nella torpida Italia della ripresina economica che stenta a rafforzarsi, è iniziato un prudente ma chiarissimo fenomeno di “ritorno a casa” delle industrie che avevano “delocalizzato” all’estero venti o quindici anni fa e stanno accorgendosi che non gli conviene più.
È una notizia così clamorosa che nemmeno Renzi in persona l’avrebbe potuta inventare migliore. Eppure è vera. E certamente dipende più dal fatto che le condizioni di vantaggio individuate all’epoca da questi imprenditori “emigranti” nei Paesi di approdo sono impallidite, si sono ridimensionate, che non dal fatto che siano migliorate quelle in Italia: ma ciò non toglie che il rientro di queste imprese significa lavoro e benessere in più dentro i nostri confini.
Lo attesta, e lo analizza, una straordinaria ricerca dell’Università di Modena e Reggio Emilia (Unimore), che ha associato in un suo gruppo di studio sul tema anche gli atenei dell’Aquila, di Catania, di Udine e Bologna. E, dopo aver fotografato il fenomeno, ha aggiornato i dati al 31 dicembre 2015.
Il Gruppo di ricerca Uni-Club MoRe Reshoring ha costruito da oltre cinque anni una banca dati in cui ha raccolto e classificato le notizie che si riferiscono a decisioni di rimpatrio delle aziende: a oggi, la banca dati contiene informazioni relative a circa 730 decisioni di reshoring manifatturiero a livello europeo. Ma i ricercatori segnalano che non sempre le aziende che “ritornano” sono disposte a comunicarlo, per cui “si è convinti che i dati di seguito illustrati siano approssimati per difetto”.
Sta di fatto che l’Italia è, tra i Paesi europei, quella che con 121 casi di reshoring censiti sembra più attiva, al riguardo: in Germania sono rimpatriate solo 63 aziende, in Uk 68, in Francia 42, ecc. Ovvio, se n’erano andate via in misura e con convinzione assai minori delle consorelle italiane.
La stragrande maggioranza dei “rimpatri” si è verificato dalla Cina (con quasi la metà delle decisioni totali) e dall’Asia in genere (che complessivamente rappresenta circa il 60% dei rimpatri complessivi europei). Elettronica, elettrotecnica e abbigliamento sono i tre settori più coinvolti dal fenomeno.
Ma perché le aziende ritornano? Qui l’analisi di Unimore abbraccia l’intero campione europeo, perché le logiche alla base di queste scelte sono le stesse, sia pur distribuite con “pesi” un po’ diversi da nazione a nazione. Gli eccessivi costi logistici sono determinanti per la scelta di rientrare nel 24,2% dei casi. C’è poi l’effetto “made in” (deve far riflettere molto prima di aderire al Ttip, che lo deprime), perseguito nel 22,1% dei casi di rientro. Incide poi molto la maggior qualità delle produzioni che erano state delocalizzate (21,7%), mentre nel 18,4% incide la constatazione che i vantaggi conseguibili all’estero grazie al basso costo del lavoro sono modesti (18,4%), come pure incidono meno i minori costi globali (18,01% dei casi). Molto conta il miglioramento del servizio al cliente, nello spingere l’impresa a rientrare (17,3% dei casi), e poi ancora i minori tempi di consegna (14,6%), gli incentivi pubblici (12,3%) e la vicinanza tra la ricerca e la produzione (12,1%). Insomma, tutte ragioni assai condivisibili.
In Italia la voglia di “made in” (41,6%) come movente per il reshoring prevale sulla diminuita competitività dei costi (22,8%, perché i nostri costi sono in molti casi più alti di quelli europei), seguita dal miglioramento del servizio al cliente (24,8%) e dalla qualità delle produzioni delocalizzate (17,8%).
Ovviamente, la minor convenienza dei Paesi di sbocco tradizionali delle delocalizzazioni – Cina e Asia in genere – non è percepita ovunque allo stesso modo. Le “Italie” sono molte e molto diverse, e gli imprenditori confrontano la convenienza del restar fuori confine rispetto all’idea di rientrare sulla base delle reali e differenti condizioni di lavoro qui, dentro i confini nazionali. Non a caso, le aziende che tornano sono del Nord-Ovest in 50 casi su 121, del Nord-Est in 45 casi, del Centro in 22 casi, ma appena in 4 casi sono del Sud. Per dire: meglio lo smog di Shenzhen che la ‘ndrangheta.