Make Italy great again, prometteva lo slogan dell’invito: ed effettivamente i 400 businessman riuniti ieri a New York per discutere del futuro degli affari tra Italia e America nell’era Trump, almeno a parole, erano tutti pronti a giurare che il nostro Paese ha grandi opportunità di sviluppare il proprio export negli Stati Uniti, che oggi vale la metà di quello tedesco, e di attrarre nuovamente gli investimenti americani sul suo suolo. Ma riuscirci non sarà facile come dirlo. Nel 2015 per la prima volta gli investimenti italiani negli Stati Uniti – da quelli di Farinetti per i suoi ristoranti Eataly a quelli di Marchionne in Chrysler – hanno complessivamente superato i 28 miliardi di dollari, mentre quelli reciproci – degli americani in Italia – sono rimasti a quota 22 miliardi. Non era mai accaduto prima, dal dopoguerra a oggi.
E dunque, con il titolo “Italy meets Usa”, Fernando Napolitano, consulente e uomo d’affari, con la sua società Ibii, ed EY (come si chiama oggi la Ernst Young), guidata nel Sud Europa da Donato Iacovone, hanno convocato per la sesta volta in tre anni questi “stati generali” dell’interscambio italo-americano. Con Wall Street che intanto inanellava un altro record, imperturbabilmente impegnata a scandire con i suoi applausi miliardari la cavalcata su tutti gli altri fronti poco trionfale di Trump. Ma tant’è: The Donald promette sgravi fiscali e investimenti nelle infrastrutture, e subito le banche e le imprese minerarie salgono in Borsa e trainano il mercato; minaccia protezionismo, ma chi teme di dover pagare di più le materie prime o la manodopera pensa anche di poter tenere i prezzi più alti perché meglio difeso dalla concorrenza low-cost del Terzo Mondo. Insomma, ci sono dei chiaroscuri, ma la vita continua e il business, come ogni show che si rispetti, “must go on”, deve continuare.
Quanto all’Azienda Italia, i dati parlano chiaro. E ben li spiega Simone Crolla, consigliere delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy: “Dal 2003 gli investimenti americani in Italia sono scesi del 2,6% mentre quelli italiani in Usa, grazie anche al caso Fiat-Chrysler, sono cresciuti del 312%. Se poi guardiamo al flusso degli investimenti verso gli Usa, l’Italia è il dodicesimo Paese, ottavo tra quelli europei; mentre per gli investimenti dagli Usa al mondo l’Italia è la trentottesima meta, e la tredicesima in Europa. Decisamente occorre uno sforzo per valorizzare molto di più l’attrattiva che pure abbiamo agli occhi degli americani”.
Già, perché il brand “made in Italy” è il terzo più conosciuto del mondo, dopo Coca Cola e Visa. E piace moltissimo agli americani, che infatti lo inseguono anche dove non c’è, credendo ad esempio che la diffusissima pizza “Sbarro” sia italiana mentre in realtà è messicana… Per Iacovone è molto rilevante che l’Italia sia “il primo Paese al mondo per siti Unesco, 51; ottava per competitività turistica e terza in Europa, e nel 2015, i turisti stranieri in Italia hanno speso quasi 36 miliardi di dollari nel nostro Paese”.
Secondo i dati di McKinsey, infine, l’Italia è ancora il secondo Paese manifatturiero in Europa e il sesto nel mondo. “Quando la General Electric acquisì la Avio”, osserva ancora Crolla, “il suo capo Jeffrey Immelt disse che l’Italia era stata scelta per la leadership nel design e nella manifattura dei motori aeronautici, per la forza e la strutturazione finanziaria del suo export, il sostegno allo sviluppo tecnologico l’esperienza nella ricerca e nelle professionalità”.
Bene: ma come fare per “far fruttare” ancora tutto questo patrimonio di stima e di attrattiva che, i dati lo attestano, se ne sta lì come congelato, in attesa di tempi migliori? Innanzitutto bisogna farsi conoscere meglio, sottolinea Napolitano: “L’Italia, con le sue capacità, competenze e potenzialità, è ancora poco conosciuta nel mondo del business americano, e può esserlo molto di più, e realizzare molto di più. Lo scopo di tutta la mia attività è questo, sia attraverso le borse di studio Best Fullbright che facciamo assegnare ai candidati italiani meritevoli, sia attraverso i summit, sia attraverso le due One week accelerator program che facciamo proprio per accelerare la crescita delle start-up italiane più meritevoli e suscettibili dell’interesse degli investitori americani”. “La fiducia dei consumatori e degli investitori esteri nell’economia italiana in realtà sta riprendendosi, nonsotante quei dati”, aggiunge positivo Iacovone “si deve e si può lavorare duro per recuperare, su queste basi, la nostra competitività. Dalla Fca all’Enel all’Ima alla Sacmi alla Rana a Eataly, gli esempi di insediamenti italiani di grande successo in America non mancano”.