Un’inchiesta sull’urbanistica scuote Palazzo Marino: coinvolte più di 70 persone, anche Sala tra gli indagati. Un tornante “gemello” di quello del 1993?
Nel giugno 1993, anno-culmine di Tangentopoli, Milano votò come sindaco il leghista Marco Formentini, che batté al ballottaggio Nando Dalla Chiesa (candidato per La Rete appoggiato da Pds, Rifondazione e verdi) e successe al socialista Giampiero Borghini, esponente politico ortodosso della “prima repubblica”.
Quelle amministrative furono le prime in cui il sindaco venne eletto direttamente alle urne, con sistema maggioritario. Visto in prospettiva, quel passaggio fu il primo laboratorio di un Paese in cambiamento strutturale. E la crisi giudiziaria – per quanto pesante – era il riflesso esterno di una crisi socioeconomica e politico-istituzionale che aveva nella “capitale morale” il suo luogo più rappresentativo.
Politica e impresa si erano contaminate in “comitati d’affari” e la Procura non poté che intervenire, iniziando peraltro proprio allora – a nome dell’intero ordine giudiziario – un proprio percorso di “aggiustamento” degli equilibri all’interno dell’architettura materiale dei poteri costituzionali.
La nuova crisi ambrosiana, culminata nell’avviso di garanzia al sindaco Beppe Sala, presenta più di un’analogia con quella di allora, anzi: può darsi che entrambe racchiudano come parentesi una stagione trentennale. Per ora pare possibile soltanto registrare qualche appunto.
La radici economiche della Tangentopoli milanese affondavano nel declino dell’Italia industriale e nei nuovi orizzonti aperti dalla privatizzazione e dalla finanziarizzazione dell’Azienda-Paese. La politica stessa si era riscoperta e rimodellata come “banca d’affari”: cabina di governo di giganteschi processi di ristrutturazione economico-finanziaria (le cui “dazioni ambientali” erano moltiplicate dal proporzionalismo).
La ricostruzione urbanistica di Milano – oggi “arrestata” dalla Procura – comincia allora e trova il suo culmine nell’Expo del 2015 (il neo-sindaco di centrosinistra Beppe Sala è emblematicamente un ex dirigente della Pirelli arruolato come city manager dal sindaco di centrodestra Letizia Moratti).
Analogamente, è negli anni 90 che la metropoli lombarda funge da “filiale” della City di Londra durante la fase ruggente delle privatizzazioni italiane (che annoverarono la “madre di tutte le Opa” su Telecom). L’emergere progressivo di tre campioni nazionali bancari (oggi Intesa Sanpaolo, UniCredit e BancoBpm) testimoniò la centralità di una nuova smart city di ambizione globale – simbolicamente nel fashion – poi sviluppata in tutti i segmenti di quello che allora si chiamava “terziario avanzato”: dalla sanità al turismo, all’università, ai media, alla fieristica d’eccellenza internazionale.
Quello che però è successo dopo (ma in parte era successo anche prima) assomiglia parecchio alla strategia dell’amministrazione Bush negli Usa dopo lo scoppio della bolla internet in Borsa e l’11 settembre 2001: rilanciare l’edilizia in quanto tale, in circolarità con il boom della finanza derivata.
Oggi non è comunque un paradosso che lo tsunami attorno alla giunta di Milano si sia scatenato lo stesso giorno in cui il costruttore-immobiliarista romano Francesco Gaetano Caltagirone ha dato lo sfratto ad Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca ed ultimo erede di Enrico Cuccia.
Glielo ha recapitato Luigi Lovaglio: un ex top manager di UniCredit oggi Ceo di Mps, banca esemplare della “prima repubblica”, andata in dissesto e salvata dalla seconda (per la precisione dal governo Renzi, a spese multimiliardarie dei contribuenti).
Nelle stesse ore, UniCredit – trasferito nel frattempo da Piazza Cordusio in un trophy building della nuova skyline meneghina – è assediato in casa: non riesce a muovere un passo né in Italia né in Europa. A Mediobanca è intanto venuto significativamente meno l’appoggio di Mediolanum, forse il prodotto imprenditoriale in assoluto più innovativo dell’Azienda-Milano contemporanea.
Ma l’impresa congiuntamente creata da Silvio Berlusconi ed Ennio Doris – due talenti del calibro dei “nipoti” Jeff Bezos o Elon Musk – non è mai stata riconosciuta dalla Milano “istituzionale” infine impersonata da Sala. Mentre Fininvest è sempre stata combattuta da quel Palazzo di Giustizia che nel 2025 si è invece ritrovato ad accusare Sala.
Il malessere sociale di una città che non si sente più in casa sua è d’altronde lo stesso dei dem di New York, che hanno sostenuto Zohran Mamdani come candidato sindaco di assoluta rottura con un presente fatto di affitti, trasporti e servizi costosi e inefficienti; di ristoranti e supermarket non più “affordable” anche per l’overtourism. E dopo il Covid anche nella Grande Mela la sicurezza nelle strade è tornata problematica.
Le stesse Olimpiadi invernali che fra qualche mese avrebbero dovuto consolidare a Milano una nuova dimensione-vocazione globale, non sono mai state vissute come tali nella fase preparatoria. E ora difficilmente sembrano poter costituire una scialuppa di salvataggio come i Giochi estivi di Parigi, che l’anno scorso hanno permesso al presidente francese Emmanuel Macron di sopravvivere nell’immediato a due batoste elettorali.
La disaffezione politica di una città di grande tradizione civile è nelle cifre delle elezioni comunali. Al primo turno del ’93 vota il 78,5% dei milanesi e al secondo Formentini s’impone con il 57% di un’affluenza di poco inferiore al 70%. Nel 2021, Sala è rieletto con un minimo storico di affluenza (47% al primo turno) e a conti fatti viene votato da un milanese su quattro.
È lo stesso handicap che pesa da otto anni su Macron. A Parigi come a Milano sembra essere entrata definitivamente in crisi l’epoca di governanti sganciati da ogni ideologia se non quella “politicamente corretta”; legittimati da un impegno “apartitico” ma in ultima analisi “antipolitico”.
È così – anche nel caso di Sala – che ai post top del potere pubblico sono approdati tecnocrati “istituzionali”, sostenuti da una “società civile” sempre più confusa con le élites; sotto l’occhio sempre vigile e non sempre neutrale della magistratura.
Assai più che nel caso di Giuliano Pisapia – eletto sindaco nel 2011 quando a Palazzo Chigi veniva chiamato il rettore della Bocconi Mario Monti, sull’onda dello spread –, Sala è apparso il proconsole dell’establishment ambrosiano sostenuto dal centrosinistra in chiave di pura “resistenza” al centrodestra maggioritario in regione e in fondo anche nel Paese. Forse anche per questo la sinistra ha “lasciato fare” l’amministrazione Sala, all’insegna del “Tutto tranne Berlusconi” prima e del “Tutto tranne Salvini e Meloni” ora.
Che per il Comune di Milano si voti a fine 2026 o – sempre più verosimilmente – prima, le forze politiche di entrambi gli schieramenti saranno chiamate a scelte difficili, che saranno severamente vagliate da un elettorato per molte ragioni maldisposto. Il centrodestra riparte dal “bottom” (fondo, ndr) rappresentato dalla fallimentare candidatura di Luca Bernardo quattro anni fa. Ma il compito del centrosinistra si presenta anche più insidioso, e metterà verosimilmente alla prova la leadership di Elly Schlein nel Pd più delle schermaglie pre-congressuali.
La Milano “democratica” aveva comunque già preso a scaldare i motori in vista della conclusione del decennio-Sala. È emerso, più di altri, il ballon d’essai riguardante Mario Calabresi, ex direttore di Repubblica, oggi editore di podcast a Milano con Chora Media. È un orfano del terrorismo come lo era Dalla Chiesa. Non è un politico di professione, non ha in tasca tessere né ha avuto esperienze di governo della cosa pubblica.
È certamente un portavoce non banale di molte istanze di diversi strati della società civile progressista milanese. Vedremo se sarà lui il pallone posto a centrocampo da un “campo largo” ancora indefinito nel centrosinistra. E quale sarà il pallone contrapposto dal destra-centro al potere a Roma e in Lombardia.
Gli esiti potrebbero essere imprevedibili. A New York, l’establishment progressista che si raccoglie attorno al New York Times ha preso ad attaccare Mamdani, lanciato verso Capitol Hill da un incredibile successo “populista” alle primarie dem. Il NYT – in trincea da mesi contro l’onda-Trump – si ritrova così a supportare il “vecchio” governatore Andrew Cuomo, spinto a presentarsi come indipendente anche dopo la dura punizione delle primarie, legata anche a un passato recente di scandali amministrativi e personali.
E un occhio di riguardo viene riservato anche al sindaco uscente, Eric Adams, ex poliziotto afro, intenzionato a ripresentarsi come indipendente, nei fatti con il sostegno tacito dello stesso Trump.
Così il 4 novembre gli elettori newyorchesi potrebbero essere chiamati a scegliere fra tre candidati “dem”: uno stravotato alle primarie, gli altri due come indipendenti sorretti dal presidente repubblicano in carica e dal vecchio establishment “dem”, incapace di farsi da parte pur dopo un 2024 “horribilis”.
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